Quella del genitore troppo orgoglioso del propri figli è una figura che è piuttosto semplice incontrare, tanto quanto spero siano rare le figure opposte. Io appartengo alla prima categoria, ovviamente con la certezza di averne buone ragioni. Tuttavia è proprio per questo che ho fatto un po’ fatica a decidere di pubblicare questo post – ma infine, superate queste resistenze, eccolo. Vi confesso che all’inizio avevo pensato di esercitarmi nella classica “lettera a mio figlio”, ma non ho voluto esagerare: certe cose è giusto che restino un fatto privato. Ivan ha appena superato l’esame di maturità scientifica. Per questo, ha dovuto anche fare una tesina, alla quale ha dato il titolo Le geometrie non euclidee. In caso voleste leggerla tutta, la potete scaricare in pdf a questo link. Quando l’ho letta per la prima volta mi sono commosso, per la qualità delle cose che diceva. In particolare, appena ho letto la parte conclusiva ho pensato che questa non parlava solo di matematica – parlava di cose che ci riguardano tutti. Per questo, ho chiesto a Ivan il permesso di condividerla con voi, e Ivan con un sorriso ha detto “va bene”. Non voglio commentare questo brano, perché si commenta da solo, ma mi rivolgo a Ivan con un solo frammento di quello che avrei potuto scrivergli, per ringraziarlo – concedetemelo.
Caro Ivan, un grandissimo fotografo che non conosci, Robert Adams, ha detto di non poter dedicare più del cinque per cento del suo tempo alla vera ragione per cui ama la fotografia – ossia essere sul campo a fotografare. Credo che ogni attività che facciamo, compreso amare, sia sempre travolta da un novantacinque per cento di necessità quotidiane, difficoltà, distrazioni, impegni collegati (a volte bellissimi, a volte meno, a volte solo routine) e così via. Nel caso di quello che faccio, lo vedi, oltre al poco fotografare bisogna anche passare ormai molto tempo al computer, coltivare relazioni, parlare con gli stampatori e i corniciai, frequentare altri artisti e curatori, insegnare, giostrare coi commercialisti, pagare tasse, inseguire i pagamenti in ritardo, studiare sempre, sperimentare… una immensa quantità di cose, leggere e pesanti, che a volte arrivano quasi ad offuscare la vera ragione, appunto, per cui facciamo quello che facciamo. Ma senza quel cinque per cento il resto non avrebbe senso, o ne avrebbe talmente poco da condannarci a una vita amara. Ecco Ivan, ti dico solo questo: proteggi il tuo cinque per cento. Nella vita incontrerai soprattutto persone e situazioni che, magari senza rendersene conto, faranno di tutto per togliertelo, per spegnerlo – ma ci sarà anche chi capirà, ci saranno anche momenti bellissimi. Proteggi il tuo amore, fallo crescere e fallo vedere: solo così proteggerai la bellezza e la ricchezza della tua vita.
Ivan Andreoni, Le geometrie non euclidee, estratto dalle Conclusioni:
[…]
La matematica e la filosofia, fra gli studenti, sono le due discipline che si contendono il primato del “quando mai mi servirà ‘sta roba nella vita”. Riguardo la filosofia, si espresse nel ‘68 Gustavo Bontadini, affermando provocatoriamente che la filosofia non serve a nulla, mentre le scienze servono, servono il potere: la filosofia dunque, nella sua inutilità, è l’unico sapere veramente libero. La scienza è infatti per eccellenza quella disciplina utile che, anche nei suoi aspetti più teorici, ha un immediato rapporto con la tecnica e la praticità (per esempio, le trasmissioni satellitari non funzionerebbero senza effettuare aggiustamenti sugli orologi calcolati usando la relatività generale, settore apparentemente troppo teorico per avere un ruolo pratico nella vita comune).
La matematica, a mio avviso, si colloca a metà fra scienza e filosofia. Questa ha in comune con la scienza un metodo rigoroso che, come scrisse Nietzsche, “aiuta a diradare le nebbie della metafisica”. Ma mentre la scienza è una disciplina empirica, legata dunque al mondo materiale, in continua revisione, la matematica è più intellettuale, fondata su assiomi precisi, dedotta con teoremi che conferiscono un grado di certezza e precisione ben superiore. Per questo motivo, molti filosofi hanno considerato la matematica come ‘scienza per eccellenza’: i Pitagorici vedevano i numeri molto legati alla verità, Platone considerava le idee legate ai numeri, e nella filosofia più moderna molti furono i filosofi-matematici che diedero contributi a entrambe le discipline (Cartesio e Leibniz sono due fra questi).
La matematica condivide con la filosofia un approccio teorico e dunque un’inutilità apparente, non avendo un immediato riscontro pratico. Ma la matematica, così come la filosofia, dalla sua inutilità trae vantaggio, perché è proprio questo che le consente una libertà nella ricerca della bellezza o di altri valori.
Così la pensava il matematico inglese Godfrey Harold Hardy (1877-1947), che espresse il suo pensiero in A Mathematician’s Apology (1940): “I have never done anything ‘useful’. No discovery of mine has made, or is likely to make, directly or indirectly, for good or ill, the least difference to the amenity of the world”.
Va specificato che Hardy si colloca in un contesto in cui alcune teorie matematiche avevano avuto recente applicazione bellica: fu probabilmente anche l’orrore della prima guerra mondiale, in cui si videro le peggiori applicazioni della scienza, a far preferire a molti pensatori l’approccio più puro e teorico possibile.
Ma anche la matematica pura è destinata a diventare matematica applicata, prima o poi: per fare alcuni esempi, i numeri complessi furono menzionati per la prima volta da Girolamo Cardano nel XVI secolo come artificio per poter applicare le ‘formule di Cardano’ nella risoluzione delle equazioni di terzo grado. Oggi i numeri complessi hanno applicazioni in molti campi, fra cui la meccanica quantistica e l’ingegneria elettronica. I numeri primi, uno degli aspetti più misteriosi e affascinanti della teoria dei numeri, che furono studiati e sono tuttora studiati da numerosi matematici (fra cui lo stesso Hardy), svolgono oggi un ruolo centrale nella crittografia.
Le geometrie non euclidee sono un altro eccellente esempio di ciò: quando Lobačevskij e Bolyai decisero di analizzare approfonditamente il sistema anti intuitivo in cui la parallela non è unica, difficilmente avrebbero immaginato che i loro studi sarebbero stati applicati alla fisica.
È questo il motivo per cui trovo la matematica estremamente affascinante: da una parte, è una disciplina teorica e pura, e per questo dotata di un particolare fascino; dall’altra, è rigorosa e precisa, e le sue inevitabili ma imprevedibili applicazioni la rendono utile senza comprometterne la fondamentale bellezza.
Con questo intervento di The Cool Couple si chiude la serie dedicata a Camera con Vista 2016, e ringrazio qui la disponibilità di tutti a mettere qui a disposizione le loro riflessioni.
Il duo formato da Niccolò Benetton e Simone Santilli ci offre un contributo importante, per profondità e significato. The Cool Couple ci permette, con questo testo dalla struttura fortemente saggistica, di entrare in quelle stanze che raramente ci è dato di visitare: le fucine, anche un po’ caotiche e magmatiche nonostante gli sforzi di tenerle in ordine, dove si forgiano i pensieri e le ragioni che portano a realizzare, successivamente, dei lavori. The Cool Couple ci offre qui proprio questo: una studio visit mentale che ci permette di assaggiare i riferimenti, i processi di raccolta d’indizi che sfociano poi nei lavori che in molti sempre più apprezzano.
Non è semplice tuffarsi in questi flussi di pensiero: segnali alti e bassi si incrociano continuamente, collegamenti spiazzanti ci portano qua e là come durante una navigazione un po’ agitata, ed è evidente e riconoscibile l’influsso della pratica del web, perfino quando i riferimenti sono librari.
In questi giorni di giugno chiudono le scuole, e The Cool Couple ci lascia i compiti per le vacanze, con un sacco di cose interessanti da studiare: grazie, cercheremo di approfittarne. E non temiamo il complicato: come ebbe a dire Carlo Emilio Gadda, L’occhio deve prepararsi aperto: se lo chiuderete per paura del difficile, vedrete le vene della vostra palpebra, e soltanto quelle.
Niccolò Benetton – Simone Santilli, The Cool Couple
Death seed blind man’s greed
Poets’ starving children bleed
Nothing he’s got he really needs
Twenty first century schizoid man. (King Crimson, 21st century schizoid man)
Forse abbiamo raggiunto una massa critica. Il futuro prossimo non è roseo. Dal 2008, non possiamo più ignorare il flusso di instabilità e cambiamento che si è manifestato nelle sfere apparentemente distinte della “Natura” e della “Società”, accompagnato dalla proliferazione di un vero e proprio linguaggio della crisi (energetica, finanziaria, occupazionale, climatica, alimentare…) che alimenta l’incertezza a proposito di questo periodo storico[1].
In casi simili, è ipocrita nascondere il fatto che ci sentiamo importanti (certo, non c’eravamo quando l’uomo è sbarcato sulla Luna, ma un po’ di cose degne di nota le abbiamo viste: l’attacco alle Torri Gemelle, il collasso della Lehman Brothers, l’assassinio di Osama Bin Laden, e poi, rarissimo, il mondiale azzurro del 2006). Del resto, non si prova una sensazione stupenda a poter dire: “L’ho visto con i miei occhi!”?
Sarà perché ci avviciniamo alla maturità intellettuale, ma surfare sulla cresta dell’onda della storia ci mette un po’ a disagio. Il retrogusto di questa novità, del fatto che probabilmente siamo testimoni di qualcosa di inedito, è quello di uno scollamento tra il mondo e gli strumenti cognitivi con cui cerchiamo di comprenderlo. Siamo presi tra violente astrazioni. Troppa realtà viene concettualizzata per essere compresa, lottizzata, pubblicizzata o semplicemente descritta e, parallelamente, tutta questa astrattezza è reale. È come se si fosse rotto un condotto e una sorta di greggio si stesse riversando nella nostra vita. Una marea in cui non galleggiano solo le immagini che produciamo ogni giorno, ma tutto il bagno di dati – indifferenti al tempo, allo spazio, in altre parole a noi – in cui siamo immersi.
All that information – all that information capacity – looms over us, not quite visible, not quite tangible, but awfully real; amorphous, spectral; hovering nearby, yet not situated in any one place. Heaven must once have felt this way to the faithful. James Gleick, in Metahaven, Black Transparency, Sternberg Press, Berlino 2015.
Una volta c’era Internet e ci chiedevamo se e quanto ampia fosse la dicotomia che creava con il mondo fisico. Oggi la Rete è penetrata ovunque, negli oggetti, negli ambienti, nelle forme di vita, e queste stesse distinzioni non sono più così chiare. Potremmo dire, con parole nostre, che non è più possibile osservare[2]. Eppure, sembra che in qualche momento della storia recente la nostra società si sia ristrutturata attorno alla visione, contraddicendo apparentemente molto di quanto detto finora.
Il rigore di Grosso in Italia – Francia, finale dei Campionati Mondiali di Calcio del 2006, riconosciuto più volte per il suo valore di “orgasmo calcistico”. L’epicità di questo match è dovuta anche alla celebre “testata di Zidane”, che ci ricorda come, a volte, grandi opere d’arte siano dedicate alle persone sbagliate.
Vorremmo dunque condividere alcune riflessioni sullo stato della fotografia, sull’immagine, sullo sguardo nel presente e forse nel prossimo futuro: si tratta del primo tentativo di formalizzare la ricerca di un nuovo progetto, che speriamo veda presto la luce.
Un paio di anni fa, in occasione di Generazione Critica, una due giorni di incontri sulla fotografia organizzata a Modena da Marcella Manni e Luca Panaro, sollevammo il problema di rivedere la terminologia con cui ci riferiamo alla fotografia. È ancora necessario parlare di punctum, tracce, essenza, ontologia, novità, realtà vs. messa in scena, digitale vs. analogico, vita, morte, zombie, oppure possiamo muovere un passo avanti appoggiandoci a ormai alcuni decenni di contributi sull’argomento? La domanda era in parte provocatoria: non era nostra intenzione svalutare linee di ricerca e approcci differenti per legittimare la nostra posizione. Semplicemente, cercavamo di dar voce a quello che continuavamo a ripetere insieme agli artisti e ai curatori che frequentiamo.
Se la fotografia è un’abitudine collettiva (riprendiamo e modifichiamo leggermente qui l’idea di “fotografia come pratica collettiva” coniata da Francesco Jodice), un gesto automatico e acritico, un atto spontaneo che ci rende produttori e vettori di informazione, allora possiamo pensare che esista solo come un insieme di relazioni[3].
Immaginario metabolizzato dal cinema, a sua volta rimasticato dai robot. Algoritmi che digeriscono immagini di Mad Max: Fury Road e restituiscono simil-cover di Sgt. Pepper’s Lonely Art Club Band dei Beatles. Immagine postata su Twitter da: @GoddoSukoupion
Detta con la teoria dei quanti, suonerebbe così: dobbiamo abbandonare l’idea che la fotografia abbia delle proprietà intrinseche per riconoscere che essa ha un potenziale non completamente definito, che si sviluppa solo nell’interazione con un sistema appropriato.
Questa prospettiva è, in prima battuta, un invito a lasciare che la fotografia si acclimati nel sistema dell’arte – con tutte le conseguenze del caso. Una volta per tutte, senza ripensamenti, consideriamola un “mestiere” nel senso in cui parliamo di pittura, scultura, incisione e via dicendo[4]. In secondo luogo, per descrivere cos’è la fotografia su un piano concettuale suggeriamo di adottare la parola “immagine”. Non siamo certo nella posizione di coniare neologismi e non intendiamo farlo, però “fotografia” è un termine che provoca non poca confusione.
Gran parte delle immagini oggi assomiglia o ricorda fotografie. Il loro comportamento, tuttavia, rende ardua una vera e propria descrizione. Ci sfuggono tra le dita, continuano a cambiare stato, trasmigrando su supporti radicalmente diversi e, oltre un certo livello di ingrandimento, evaporano in sequenze di codice, mescolandosi a miliardi di altri pacchetti di dati.
La performance delle immagini si misura anche in base alla loro capacità di trasportare dati. Greg McNevin combina lunghe esposizioni notturne a un misuratore Geiger dotato di led per restituire visivamente il livello di radiazione in diversi luoghi colpiti da disastri nucleari. Copyright: Greg McNevin.
Possiamo comprendere le immagini come nodi iperattivi in una rete: se esistono, lo fanno come relazioni o flussi[5].
2.
Data, sounds, and images are now routinely transitioning beyond screens into a different state of matter.They surpass the boundaries of data channels and manifest materially. They incarnate as riots or products, as lens flares, high-rises, or pixelated tanks. Images become unplugged and unhinged and start crowding off-screen space. They invade cities, transforming spaces into sites, and reality into realty. They materialize as junkspace, military invasion, and botched plastic surgery. They spread through and beyond networks, they contract and expand, they stall and stumble, they vie, they vile, they wow and woo. (Hito Steyerl, Too much world. Is the Internet dead?, “E-flux Journal #43, 11/2013)
Durante la Primavera Araba si parlava di democratizzazione dei mezzi di produzione visiva: assistevamo in diretta allo spettacolo del potere delle immagini amplificato dalla circolazione in Rete. Negli stessi anni venivano perfezionati e resi accessibili anche altri servizi: una specie di IOT (Internet Of Things) per le immagini, che potremmo chiamare IOT (Images On Things). Abbiamo misurato la potenza delle nostre connessioni con esse, in una rincorsa verso la migliore qualità e il minor tempo di scambio. Così fotografie, meme, still da video, fotomontaggi e via dicendo generano modelli e stampe 3D, cuscini, tazze, piatti, coperte, grafiche per mezzi pubblici, e la lista potrebbe andare avanti ancora molto, soprattutto se includiamo gli apparati non direttamente collegati alla vista ma che idealmente dovrebbero sostituirla (dai radar agli assistenti di manovra)[6]. Come scrive Hito Steyerl, la visione si riversa nella realtà.
Qualche anno fa, l’idea di abitudine collettiva ci spinse a ipotizzare diversi scenari, ispirati dalle più recenti evoluzioni tecnologiche e dalla percezione che il presente stesse pigiando a tavoletta sul pedale dell’acceleratore. Fedeli alla vecchia massima di J.G. Ballard per cui basta mettere un po’ sotto stress la realtà per tirarne fuori il succo, ipotizzammo allora che la fotografia sarebbe presto tornata alle origini: un fenomeno naturale, la semplice interazione di leggi ottiche e reazioni chimiche (in questo caso elettromagnetiche) nella tecnosfera[7]. Immaginavamo individui, forme di vita e tecnologie, equipaggiati con dispositivi che avrebbero registrato autonomamente e incessantemente. La fotografia sarebbe stata “solo” una questione di accesso: un cloud, onnipresente, una sorta di memoria esterna dalla quale richiamare la soggettiva di un dato istante.
Avevamo in mente, tra gli altri, Hyperion di Dan Simmons e The Final Cut, un film con Robin Williams, in cui l’attore recita la parte del montatore in una società futura: il suo lavoro è una specie di servizio fornito dalle agenzie di pompe funebri, che alla morte di una persona realizzano un cortometraggio con i momenti salienti della vita del defunto, dal suo punto di vista. Il film ipotizza che ogni individuo sia dotato di protesi retiniche per la ripresa fotografica e di un disco rigido sottocutaneo.
Poco tempo dopo i nostri trip fantascientifici è uscita la serie tv Black Mirror e una puntata dipingeva proprio questo futuro. Se poi pensiamo che recentemente la Samsung ha brevettato delle lenti a contatto che permettono di scattare fotografie con un battito di palpebre oppure che è stato scoperto il modo di salvare immagini nel DNA…
La realtà ha smesso di pestare sull’acceleratore per attaccare il NOS, in pieno stile Fast and Furious.
3.
The idea of photography becoming democratized is a really interesting concept. We’re actually more subject to the way we’re told how to take photographs, what kind of photographs we can take and even how we’re able to share them. We can’t do anything we want, we are still subject to the devices that are provided to us. (Penelope Umbrico)
Abitiamo in ecosistemi di schermi, interfacce fondamentali per la nostra esperienza e comprensione del mondo. In questo senso, dire che la vista è il più importante dei cinque sensi oggi può suonare banale. Ripetiamo comunque il concetto, riformulandolo: la vista è il senso privilegiato del XXI secolo. Lo sguardo può essere indirizzato, influenzato, distratto, abbagliato. Possiamo anche nasconderci, sostenendo che siamo disorientati dall’incapacità di filtrare l’incalcolabile quantità di immagini da cui siamo sommersi.
Nella logica del filtro esistono dati utili e scarti. Il filtro si interpone tra noi e l’oggetto della ricerca. Si interpone tra l’occhio e il mondo. Uncanny Valley è un breve cortometraggio di fantascienza del 2015, scritto e diretto da Federico Heller.
Ma siamo davvero inermi di fronte a tutto questo? Il filosofo francese Jacques Rancière ribaltava questa prospettiva suggerendo che dovremmo chiederci cosa viene sottratto alla fonte di questo flusso. Instillava il dubbio circa l’esistenza di una rimozione, di aree oscure, zone d’ombra, riassumendo il tutto con una tipica espressione della polizia: “Circolare! Qui non c’è nulla da vedere”.
La relazione quotidiana tra individui, collettività e immagini è il campo di studi della cultura visuale, una disciplina al crocevia tra diverse materie, sorta all’inizio degli anni Novanta. Nicholas Mirzoeff, uno dei suoi maggiori esponenti, sostiene che essa coinvolge le cose che vediamo, il modello mentale che ci dice in che modo vedere e ciò che facciamo come risultato. Una cultura visuale è la relazione tra il visibile e i nomi che assegnamo a ciò che vediamo. Ciò che non è visibile si comporta come la materia oscura in astrofisica: è fondamentale al funzionamento del sistema.
Cogliere le disfunzioni, le fessure nella rappresentazione che diventano crepe del reale. Copyright: Juliet Eldred.
Poiché l’immagine del mondo (world-view) è una questione di punti di vista e consiste in ciò che sappiamo e abbiamo già esperito, è nell’interesse di una serie di istituzioni e poteri tentare di plasmare questa vista.
A noi piace formulare il problema in questi termini: la gestione del limbo tra visibilità e invisibilità è una forma di esercizio del potere. Rendere visibile/invisibile, mantenere visibile/invisibile, accentuare la visibilità/l’invisibilità. Ognuna di queste coppie richiama diversi esempi: dalla criminalizzazione dei flussi migratori alla segregazione razziale, dal movimento Occupy a Wikileaks, dalla sorveglianza ai dispositivi di riconoscimento facciale, dai sistemi di trasporto marittimo alle catene del freddo, dai data center al palinsesto di un telegiornale, dalle information cascades a Spotify.
Aggiungiamo a questo quadro alcune brillanti intuizioni della cultura visuale, entrando nel discorso sulla biopolitica, e riconosciamo che lo sguardo è politico, o meglio, può nuovamente esserlo[8]. Non possiamo limitarci solo ad assistere agli eventi, come siamo educati a fare, ma è nostro diritto disobbedire laddove siamo spinti a non vedere[9]. Non è un caso che Mirzoeff abbia proposto di trasformare la cultura visuale in “visual activism”, abbandonando la dimensione esclusivamente accademica per sviluppare nuove pratiche del vedere sul campo. La sfida è porre la vista al centro di una controcultura che la impugni come strumento di dissenso con cui indagare le crepe di una realtà apparentemente liscia, in cui siamo sempre più invitati a partecipare senza conoscere le conseguenze del nostro coinvolgimento.
4.
how to speak of it
this thing that doesn’t rhyme
or pulse in iambs or move in predictable ways
like lines
or sentences
how to find the syntax
of this thing
that rides the tides
and moves with the tides and under the tides
and through the tides
and has an underbelly so deep and wide
Qualcosa è davvero cambiato. Siamo proiettati verso il futuro mentre una crisi che ci riguarda tutti si espande a macchia d’olio. La sua peculiarità, in questo caso, è che sembra andato in tilt il rapporto soggetto-oggetto. Se ci sembra impossibile orientarci è perché avvertiamo i primi effetti di un cambiamento radicale, ben riassunto dalla domanda che John Palmesino poneva in occasione del primo incontro di Belligerent Eyes, alla Fondazione Prada di Venezia: gli esseri umani si sono sempre considerati gli attori sulla scena, ma cosa accade quando lo sfondo inizia ad agire per conto proprio?
Portando la questione ben al di là dell’ambito urbanistico in cui era sorta, intercettiamo la filosofia della OOO (Object Oriented Ontology), di cui è esponente, tra gli altri, Timothy Morton. In uno dei suoi ultimi libri, Hyperobjects. Philosophy and Ecology after the end of the world, descrive la situazione presente in questi termini. Da circa tre secoli stiamo lasciando tracce permanenti sulla Terra, in particolare dalla Seconda Guerra Mondiale. Per la prima volta, nei sedimenti geologici, rimarrà un’impronta della nostra attività sotto forma di radiazioni, fossili di animali estinti, tecnofossili, rimescolamenti della composizione della crosta terrestre… In altre parole, abbiamo inaugurato una nuova era geologica che, molto modestamente, ci siamo intitolati: l’Antropocene. Fin qui, non dovremmo aver detto niente di nuovo.
Iperoggetti sono anche le perdite di greggio: in questo caso una foto ritrae il disastro della Deepwater Horizon nel 2010. Fossile poliedrico che abbiamo sottratto alla Terra per farne una costante della nostra vita, il petrolio è una sorta di macchina del tempo che diventa risorsa. Gli iperoggetti sono potentemente estetici: creano o alterano canoni visivi. Il disastro ambientale è un ponte tra carte marmorizzate, glitch e biologia. È fuori e dentro di noi. Copyright: Daniel Beltrà.
L’unico inconveniente di aver creato quella che a nostro avviso è una delle più grandiose opere di land art di sempre è il quesito di Palmesino: lo sfondo naturale che da Kant in poi abbiamo considerato inerte risorsa per l’accumulazione capitalistica, o scenografia per le nostre gesta, ha improvvisamente iniziato a vivere di vita propria.
Fa parte di questo risveglio la comparsa di entità che mandano in crisi i nostri sensi e i nostri sistemi di riferimento, costituendo un’ardua sfida epistemologica. Vi siamo immersi e non riusciamo a scrollarcele di dosso per guardarle bene. Morton le chiama Iperoggetti e le definisce “things that are massively distributed in time and space relative to humans”. Sono “iper” in relazione ad altre entità, rispetto alle quali possiedono sempre 1+n dimensioni: ciò le rende incomprensibili e portatrici della fine del mondo[10].
Uno degli esempi più comuni di Iperoggetto è il riscaldamento globale che, lungi dall’essere un concetto, esiste concretamente, ma è talmente vasto e complesso che non possiamo vederlo. Le sue manifestazioni (piogge acide, disastri naturali, anomalie climatiche) non ci aiutano nella sua comprensione. Possiamo ipotizzare sistemi a più dimensioni del nostro o tracciare schemi che ne isolano alcune caratteristiche, ricorrendo sempre a potentissimi reti di calcolatori che processano inconcepibili quantità di dati. Solo tramite il disumano possiamo avvicinarci a una vaga comprensione del disumano.
L’autonomia e le strane, inaspettate e inspiegabili proprietà degli Iperoggetti ci fanno sentire come gli abitanti di Flatlandia alle prese con una mela tridimensionale.
È un pensiero abbastanza inquietante, una volta che ci si abitua. Per dirla con Percy Shelley: “the awful shadow of some unseen power”.
Secondo OOO, le conseguenze di questa situazione paradossale sono poche e semplici: in primis, non siamo più centrali, per cui la nostra rilevanza ontologica è la stessa degli altri oggetti; in secondo luogo, non c’è più alcun “meta-”: metalinguaggio, metanarrazione, metafisica e via dicendo. Non c’è più esterno, perché la distanza è un costrutto fisico e ideologico ideato per proteggerci dalla vicinanza delle cose e delle persone[11]. Abitare nella tecnosfera vuol dire accogliere il non-umano nelle nostre vite, prendere coscienza che esso vi gioca un ruolo fondamentale. Siamo creature sintetiche, come Fred the Tortoise.
Le teorie di OOO convergono verso una serie di riflessioni comuni a diverse discipline, che sono concordi sul fatto che, per risolvere l’impasse a cui stiamo andando incontro, è necessaria una profonda revisione cognitiva. Bisogna acquisire un nuovo punto di vista su noi stessi e su ciò che ci circonda, perché, se quello che chiamiamo progresso corre più veloce della nostra fantasia e ha mandato in crisi la fantascienza, dobbiamo fare i conti con il più grande blackout epistemologico della nostra storia.
Nella prospettiva dell’arte questa è una tragedia o un gran colpo di fortuna, dipende dai punti di vista. Probabilmente dovremo riconoscere alla visione una lauta liquidazione per il gran lavoro svolto finora, riportarla dentro il nostro corpo e muovere i primi timidi passi in un mondo che, a quanto pare, ha molte sorprese in serbo per noi.
Note: [1] Le numerose crisi del capitalismo neoliberale suggeriscono che non siamo di fronte al solito schema, in cui nuove tecnologie e nuove organizzazioni di potere e produzione emergono per riconfigurare la Natura in strategie produttive inedite. Oggi è sempre più complicato ottenere risorse (umane e non) a basso costo. Non stiamo assistendo alla transizione da una fase del capitalismo a un’altra, bensì alla crisi delle strategie e delle relazioni che hanno permesso e supportato l’accumulazione del capitale negli ultimi cinque secoli (cfr. Jason W. Moore, Capitalism and the Web of Life. Ecology and the accumulation of capital, Verso Books, London 2015).
[2] Osservare nel senso galileiano del termine: acquisire, cioè, una distanza critica dall’oggetto. Fu Heisenberg ad affermare che l’osservazione di un fenomeno esercita un’influenza su di esso, promuovendo una visione della realtà come rete inseparabile di relazioni. Il tramonto dell’obiettività scientifica ha spinto le altre discipline a interrogarsi sull’arbitrarietà della visione come atto isolante. L’occhio disincarnato del pensiero occidentale è tramontato, assieme all’idolo della torre.
[3] Relazioni, metadati e pattern comportamentali: gli stessi elementi sono parte dell’equazione della sorveglianza. L’NSA (National Security Agency) ricava il profilo di una persona attraverso le tracce che questa lascia nel cloud. Il pattern ricavato ne determina il grado di pericolosità, in altre parole, ci dice se quell’individuo è un obiettivo o meno. Nelle parole del generale Michael Hayden: “We kill people based on metadata”.
[4] Non è forse il caso di abolire le espressioni come: “sono un artista che lavora con la fotografia”. Qual è il problema di dire “sono un fotografo”? Che la fotografia ha anche un settore commerciale? Perché non chiamarci solo artisti?
[5] Il linguaggio con cui ci riferiamo alle immagini è un esperanto che mescola l’intramontabile dizionario della fotografia e lo sport. Descriviamo dispositivi e contenuti nei termini delle loro prestazioni, come se fossero agenti autonomi e tra i nostri compiti vi fosse quello di monitorarli.
[7] La tecnosfera fa riferimento a quella parte dell’ambiente terrestre dove la diversità degli artefatti tecnologici espande la sua influenza nella biosfera.
[8] Una delle idee più importanti della cultura visuale, basata su recenti scoperte neurologiche, è la convinzione che la visione non è un’attività relegata a un solo organo, ma un meccanismo che coinvolge tutto il corpo attraverso complicati sistemi di feedback. I nostri corpi, tuttavia, vanno reinterpretati come estensioni e vettori dei network: trasmettiamo dati, clicchiamo, produciamo materiale visivo, interagiamo, creando collegamenti. Lo sguardo diventa allora un’entità complessa che richiede un processo di decostruzione a più livelli.
[10] Il mondo, così come lo conoscevamo, è finito con l’invenzione del motore a vapore e i testi nucleari in New Mexico nel 1945. Questi due eventi hanno segnato l’incremento logaritmico nelle azioni dell’umanità come forza geologica. Nel momento in cui la nostra storia coincide con quella della Terra, il mondo come termine non ha più senso di esistere, perché non è più un concetto operativo. Non c’è più alcun “fuori”, ci siamo completamente identificati con essa. Suggeriamo in questi casi l’ascolto dell’album Document dei REM (https://www.youtube.com/watch?v=Z0GFRcFm-aY).
[11] L’accumulazione capitalistica non può più far conto sullo sfruttamento irresponsabile della natura (umana e non). Da più parti è emersa l’esigenza di destituire la dicotomia Capitale e Natura, preferendole concetti come capitale-nella-natura e natura-nel-capitale, per iniziare a concepire l’umanità in un contesto di interazione inevitabile con forme viventi e non viventi, elevando la rete a metafora cognitiva principale. La separazione e la distanza creano le dicotomie di cui si alimentano sfruttamento, razzismo, segregazione, crisi ecologiche e gli altri problemi irrisolti del capitalismo.
Nel mandarmi questo scritto a commento del suo intervento a Camera con Vista presso la GAMeC di Bergamo, Alessandro Sambini ha fatto quello che forse noi tutti facciamo raramente: ricostruire, anche solo per sommi capi, la linea evolutiva della propria storia. Lo si fa raramente, per tante ragioni. Una potrebbe essere quella del non voler ritrovare le proprie ingenuità, i propri errori e fallimenti. Un’altra, all’opposto, potrebbe stare nel fatto che spesso siamo sempre proiettati nel futuro, prossimo o lontano, in quello che dobbiamo fare, in quello che vorremo fare e dunque ci riesce difficile fermarci a ripensare il passato. Un’altra ancora – rara e difficile – potrebbe stare nella considerazione razionale che il tempo non esiste come linea continua e progressiva, o che, addirittura, per molti versi sia il passato che il futuro non esistano: o forse siano presenti dentro di noi solo con dei frammenti, delle istantanee a volte casuali – sopravvissute in un caso, sperate nell’altro. Mi fermo qui, perché fior di filosofi si sono occupati delle questioni legate al tempo ben meglio di me. Quello che mi preme dire è che credo che sia utile e necessario, in certi punti del proprio percorso, fermarsi un momento e provare a rintracciare il senso evolutivo di quello che si è fatto, riconoscendo le tracce dei cambiamenti sottili che ci hanno man mano portato al punto dove siamo. Alessandro Sambini lo fa, con questo testo, con l’ironia, la solidità e l’onestà che contraddistingue tutto il suo lavoro.
Caro Luca, ho impostato il mio intervento sul tuo blog come quello di Bergamo alla GAMeC ed è, esattamente come per Bergamo, un tentativo di raccontare il mio percorso di ricerca fino ad ora, nell’ottica di un quieto discorrere attorno a quella che è la mia personale esperienza con le immagini.
Lavoro con le immagini dal 2004, quando ho iniziato a fotografare i gatti di casa e i cigni sul canal bianco con la digitale che ci davano in prestito all’università di Bolzano.
Cigno bello sul canal bianco – Ottobre 2003
Mi piacevano le fotografie belle e a quei tempi c’era molta tranquillità attorno alla filiera delle immagini fotografiche: non esisteva Flickr oppure non c’era una connessione internet sufficientemente veloce (avevamo il 56k) a Trecenta (il mio paese) per pensare di scambiare immagini con persone all’altro capo del globo. Dopo di questo ho iniziato a lavorare su immagini più brutte, esteticamente limitate, che avevano però un senso (apparentemente) Altro. Mentre il cigno mi interessava come una sorta di esaltazione visiva del cigno stesso nel contesto in cui si trovava, avevo deciso di provare a creare immagini che non parlassero necessariamente solo di quanto era stato fotografato ma anche di altro, magari invisibile. E se prima, parlando di invisibile, mi riferivo magari all’armonia stereotipata che la coesistenza di elementi da “favola” nella stessa inquadratura potevano suggerire – il cigno (in realtà notoriamente infido) l’acqua e il
Bel luccicare sulla superficie dell’acqua con delle piante in primo piano – Ottobre 2003
luccicare del sole sulla superficie del canale, magari in bianco e nero – successivamente erano temi legati alle mutazioni culturali che investivano la società, al cambiamento delle modalità di relazione tra le persone. Erano fotografie che scattavo e che stampavo al mini-lab per guardarle e farle vedere agli amici. Col tempo e lo studio, però, ho inavvertitamente sovraccaricato le fotografie di significati ritrovandomi con immagini brutte e silenti, sovraccaricate dalla cacofonia che creavo, come quella di questo anforaro, che in teoria doveva narrare diverse cose.
Anforaro – 2007
Allego quanto scrivevo in fase di preparazione dello scatto:
In basso si vede un pakistano che vende anfore in fondo a sinistra una fattoria di cinesi che sta svendendo gli attrezzi agricoli che ha trovato all’interno del capannone una volta acquistata la proprietà. Nel centro, al di là della strada (una sorta di muraglia, di divisorio) sostano, sotto assedio, i vari individui che si sfogano nell’acquisto dei beni.
L’inquadratura è simile a questa anche se vorrei farla un po’ più ampia sulla destra, un po’ più dall’alto e un po’ più zenitale, non di molto. Quello che vorrei è far sembrare, con l’aiuto della post-produzione, il centro commerciale come un fortino attorno al quale, ben distanti e soprattutto “evitabili”, stazionano gli stranieri con le loro attività.
Questa è una prova per far vedere grossomodo il punto di vista. La luce vorrei fosse diffusa, speriamo che ci sia nebbia o nuvoloso. Vorrei costruire una super-panoramica con diverse lastre messe assieme, scattate in verticale (5 o sei), la luce che c’è dalle 2 alle 4 rimane costante (se c’è nebbia o è nuvoloso) per questo non dovrei aver problemi di esposizioni diverse tra scatto e scatto. Ci sono molti dettagli, per esempio nella “vasca”, dove è immerso il centro e le macchine, ci sono dei cartelloni con scritto “vietata ogni forma di vendita ambulante”. Il pakistano in primo piano (che non si vede ma che si vedrà, adesso è nel ducato) si appropria di quella zona abusivamente, potrebbe stare solo due ore ma ci sta tutto il giorno. Lui viene in questo posto a vendere solo il sabato, da Rovato. Mi piacerebbe farlo in luce mista. Forse non m’interessa molto vedere le persone statiche, ferme, comunque se uso due secondi, magari riesco a beccare qualcuno nella “vasca” che rimane immobile.
Per fare la panoramica userei un normale o al limite un 40/42, robe così, in modo da non impazzire del tutto nella fase di unione. Ecco.
I riferimenti di questo progetto sono Zygmunt Bauman in particolare una frase presente ne La società individualizzata: “per certi residenti della città moderna […] lo straniero è piacevole quanto il tratto di mare su cui si fa surf e nient’affatto pericoloso. Gli stranieri gestiscono ristoranti che promettono esperienze insolite ed eccitanti alle papille gustative, vendono oggetti curiosi e misteriosi su cui fare quattro chiacchiere al party successivo”. Bauman trova in dualismo la parola chiave di questo saggio. Un dualismo che caratterizza attualmente lo stato degli stranieri e che rischia di polarizzarsi ulteriormente e che vede “a un estremo lo straniero (e la diversità in generale)” che “continuerà ad essere concepito come una fonte di esperienze piacevoli e soddisfazioni estetiche; all’altro estremo gli stranieri continueranno ad essere la terrificante incarnazione della fragilità e dell’incertezza della condizione umana, l’effige naturale per tutti i futuri roghi rituali dei suoi orrori”. Immediatamente ho ricondotto queste parole alla zona fotografata che, a mio parere, evoca, visivamente, in parte, le parole di Bauman. Oltre a Bauman mi ha ispirato il saggio consegnatoci durante il workshop, inerente alla “tolleranza liberal”, una “tolleranza” che “accetta l’altro folcloristico deprivato della sua sostanza”. Sempre in merito alla tolleranza, mi sono ricordato anche di Pasolini che nelle Lettere luterane parla di tolleranza nominale vs. tolleranza reale considerando quest’ultima “qualora ci fosse, una contraddizione in termini” e definisce la parola tolleranza, nel senso comune, come una “tolleranza raffinata”. In poche parole finché il diverso rimane zitto, non agisce da diverso, lo tolleriamo, appena apre bocca ci incazziamo. Ecco.
La foto finale non era poi male ma era molto lontana da tutto quello che volevo dicesse.
Constatai quindi una mia incapacità di adoperare efficacemente questo mezzo espressivo. Con la nascita di Flickr, infine, capii che ormai c’erano fotografi a sufficienza, che l’idea di fotografo amatoriale e di fotografo “che aveva occhio”, figure in passato rare, uniche, erano sparite (perché forse mai esistite). Decisi allora di smettere di creare immagini nuove e di sfruttare quelle già esistenti.
I will build a stronghold – 2016
Il primo passaggio fu quello di riprendere le immagini televisive poi quelle amatoriali di YouTube. Infine ho ricominciato a produrre immagini di performance che realizzavo io. Questa in particolare è un documento di una gara di castelli di sabbia che ho organizzato dove lo scopo era rifare delle torri militari realmente esistenti. È la prima fotografia che facevo con il banco ottico dopo circa sei anni. Tutto ciò mi porta a pensare che forse non avesse tanto senso per me caricare di significati immagini che non ne avevano e che se proprio volevo dire tutte quelle cose aveva senso costruire una realtà alternativa per poi documentarla.
Nel suo intervento a Camera con Vista Francesca Lazzarini ha ricordato a tutti con passione e con numerosi esempi che non dovremmo mai dimenticare quanto il nostro agire sia sempre anche politico. Purtroppo viviamo tempi nei quali la parola politica viene inesorabilmente associata alle peggiori mediocrità, quando non a perversioni e disastri. Credo, con Francesca, che dovremmo tornare – o cominciare – a pensare che, come lei dice anche qui, la politica abbia a che fare con il bene di tutti noi, sia come comunità che come individui. Ogni artista, come chiunque altro, dovrebbe chiedersi in che modo il proprio lavoro porti qualcosa agli altri e alla società. Non si tratta, credo, di dover essere a tutti i costi utili, perché a volte è proprio con gesti inutili che riusciamo a dare qualcosa. Ecco, raccogliere l’invito di Francesca Lazzarini al riflettere sulle ragioni del proprio fare è già un ottimo passo per iniziare.
L’intervento di Mirko Smerdel, nel post precedente, è l’assist perfetto al mio contributo per il blog, che è una sorta di distillato rimescolato della lecture tenuta a Bergamo per “Camera con Vista”. Come Just like Arcadia, il lavoro portato avanti dai Discipula – e da artisti come Alessandro Sambini e The Cool Couple che scriveranno dopo di me – è esemplare del tipo di ragionamento che può – e, a mio avviso, deve – essere condotto oggi sulle immagini e con le immagini. Un ragionamento che, senza paura, definirei politico, se per politica intendiamo quell’insieme di pensieri e azioni volte al bene di una collettività.
Victor Burgin, Possession, 1976
Che le immagini abbiano un potere dirompente, capace di sovrastare addirittura il peso delle parole, è cosa assodata. Ricordavo alla Gamec Possession, il poster che Victor Burgin, in occasione di una collettiva a Newcastle nel 1976, aveva attaccato in 200 copie sui muri della città. La fotografia di una coppia benestante, ritratta in un momento di effusioni, era accompagnata da due frasi: la prima diceva “cosa significa per te possesso?” e la seconda “il 7% della nostra popolazione possiede l’84% della nostra ricchezza”. E ancora più in piccolo The Economist e la data. Intervistate nei giorni seguenti alla diffusione del poster, la maggioranza delle persone dichiarava di non aver colto il contenuto politico del manifesto. Erano inoltre state tanto colpite dall’immagine che avevano letto la prima domanda come “cosa significa per te passione?”, confondendo possession con passion.
Ciò che è meno scontato è che così come non si può più essere naïve nel fare gli artisti, non si può più nemmeno rimanere neutrali. Il modo in cui oggi il potere viene esercitato, e il ruolo giocato dalle immagini in tale esercizio, ha ripercussioni così profonde sull’immaginario collettivo che chiunque operi nel campo del visivo non può permettersi un atteggiamento impassibile o indifferente.
Non solo, come diceva Fabrizio Bellomo, l’analfabeta di oggi è colui che non sa leggere le immagini (e quello del futuro colui che non sa leggere le liste) ma concordo con Mirko Smerdel quando afferma che per combattere l’ideologia non basta più neanche saper compiere questo atto di decifrazione. E a maggior ragione questo è vero per chi le immagini non solo le legge ma le produce o comunque ci lavora.
Se nel 1983 Vilém Flusser suggeriva di sfruttare i margini di libertà che sfuggono al controllo esercitato da programmi e apparati nell’utilizzo della fotografia, in anni recenti Alain Badiou ha scritto: “It is better to do nothing than to contribute to the invention of formal ways of rendering visible that which Empire already recognizes as existent” (“È meglio non fare nulla che contribuire all’invenzione di modi formali di rendere visibile ciò che l’Impero riconosce già come esistente”).
E le strategie per seguire questi consigli sono diverse: sovvertire l’uso che di certe immagini fa il potere per generare nuovi significati, utilizzare l’arte come miccia per innescare processi nella vita reale, immaginare nuovi possibili modi di vivere, ricordare semplicemente che quello dato non è l’unico assetto di mondo possibile.
Penso sia importante pensare al nostro lavoro (laddove nostro significa di artisti, curatori, critici, corniciai, stampatori, allestitori, trasportatori ecc… di tutti, insomma) come a un qualcosa che ha valore politico. E per politica, ricordo di nuovo, intendo ovviamente quell’insieme di pensieri e azioni volte al bene della comunità. Penso sia importante domandarsi ogni volta: perché faccio quello che faccio?
Il testo di Mirko Smerdel che segue queste mie poche righe descrive a fondo uno dei lavori che ha presentato negli incontri di Camera con Vista presso la GAMeC di Bergamo. Realizzato dal collettivo Discipula, del quale Smerdel fa parte, mi pare esempio perfetto della lucidità con la quale le nuove generazioni sono in grado di affrontare la questione dell’immagine. La profondità di analisi e la ricchezza politica di questi lavori dimostrano soprattutto, a mio parere, che abbiamo ormai a che fare con figure a tutto tondo, perfettamente mature e consapevoli di quello che fanno, e che ormai sono rallentati solo dalla pochezza di attenzione loro riservata da un panorama – italiano ma non solo – estremamente conservatore e in forte ritardo intellettuale rispetto alle riflessioni molto concrete che questi artisti propongono. La stessa abitudine a essere definiti giovani è una maledizione che tocca loro sopportare – ma è forse l’unica ingenuità dalla quale si devono ancora liberare essi stessi: speriamo succeda presto.
“Just Like Arcadia”, veduta dell’installazione al Krakow Photomonth festival, 2016, stampe su PVC trasparente
Le nostre vite e la nostra quotidianità sono sempre più immerse in un oceano di informazioni. Così, i nostri dati e soprattutto le nostre personali memorie, diventano parte di flussi digitali di cui diventa sempre più difficile controllarne sia origine che meta.
In questo scenario la riflessione intorno all’immagine fotografica assume particolare importanza. La fotografia, in quanto strumento di registrazione di informazioni visive, ha infatti avuto fin dalla sua nascita il compito di raccogliere le memorie delle persone e di riflesso la capacità di poter “scrivere” delle storie (se non addirittura la Storia). Uno strumento di scrittura molto potente, perché agisce direttamente attraverso stimoli visivi diretti.
Parlerò qui di un progetto specifico, “Just Like Arcadia” (JLA), anche se invito il lettore a farsi un giro sul nostro sito (www.discipula.com) e vedere i nostri lavori, in quanto le tematiche discusse in questa sede sono al centro della ricerca di Discipula, il collettivo artistico con il quale sempre più mi sto immedesimando.
Garden Bridge, immagine rendering da modello 3D
Forme che seguono una ideologia
JLA descrive la disintegrazione di un’immagine digitale attraverso la manipolazione del suo codice jpg. L’immagine jpg in questione è un rendering del “Garden Bridge”, progetto architettonico per un ponte pedonale desiderato dall’attrice Joanna Lumley e concepito dallo studio di Thomas Heatherwick. Il progetto, ancora in attesa di via libera per la sua costruzione, è da diversi anni oggetto di numerose critiche. Nonostante l’iniziale promessa di realizzazione attraverso fondi interamente privati, è infatti emerso che 60 dei 175 milioni di sterline previsti sarebbero dovuti essere pagati dal governo e dunque dai contribuenti.
Un rendering può essere considerato come una specie di fotografia “perfetta”, capace di soddisfare in pieno l’idea di chi la realizza. Un’immagine ideale, in quanto non ha più bisogno di nessuna attinenza ad un oggetto reale, esistente, ma è pura costruzione linguistica.
In questo caso specifico (ma significativo) il rendering è un’immagine che veicola una visione del futuro conforme e corrispondente al pensiero e all’immaginazione dell’industria immobiliare. Questa visione propone un’idea post-liberista di paesaggio urbano che naturalmente non tiene minimamente conto delle problematiche di housing sociale ma tantomeno di urbanistica di città come Londra (ma avrei qualcosa da dire anche riguardo Milano), soffocate dalla speculazione e da dinamiche di gentrificazione sempre più insostenibili.
L’immagine diventa puro stimolante sensoriale atto a vendere una determinata idea di futuro.
Just Like Arcadia, Index Diagram, 2016
Quello che abbiamo cercato di fare con JLA è stato di potenziare al massimo, attraverso uno stratagemma tutto sommato semplice (la corruzione di un’immagine digitale), questa componente ideologica costitutiva dell’immagine fino a renderla abbastanza distante da poterla vedere sotto una nuova luce.
Il codice jpg di questa immagine del ponte è stato infatti progressivamente “corrotto” attraverso l’inserimento di alcuni versi tratti dal poema La Arcadia, Prose e Versi scritto dallo scrittore spagnolo Felix Lope de Vega nel 1598.
Le parole di Lope de Vega descrivono un paesaggio idilliaco, così perfetto da sembrare irreale, e sembrano risuonare perfettamente con la visione proposta dall’immagine del progetto per il Garden Bridge.
Questa strategia, presente nella maggior parte dei nostri progetti, si fonda proprio su un cambio di prospettiva, ovvero la realizzazione di una nuova “distanza” che ci permetta di svelare i meccanismi che stanno dietro alla costruzione di un immagine per sabotarne il messaggio.
L’immagine sognata del neoliberismo
Quello che risulta visibile da questa analisi e da tutto il lavoro di JLA è una nuova soluzione formale (derivata da progressi tecnologici) di una vecchia strategia di propaganda che pone l’immagine al centro di un meccanismo di produzione di desiderio e di consumo.
Si sta avverando un fenomeno distopico che rappresenta simbolicamente (ma neanche tanto) l’esatto contrario dell’utopia socialista marxista.
L’utopia socialista prevedeva l’abolizione della grande proprietà borghese in difesa dell’interesse della collettività e col fine di garantire a tutti pari dignità e opportunità: un lavoro, una casa, istruzione, sanità per tutti.
Il post-capitalismo (lo chiamo così per comodità) abolisce lo stato sociale e la microproprietà individuale per difendere il monopolio di megaproprietà multinazionali, corporative e astratte. Il tutto in nome di una tecnologia capace di gestire la società in maniera solo apparentemente neutrale.
Attraverso un perverso meccanismo che ci fa credere di acquisire nuove forme di partecipazione, nuove libertà e indipendenza, ci ritroveremo presto a non possedere una casa (Air-Bnb le possederà per noi), non possedere più un’automobile (faremo car-sharing o ci affideremo a piattaforme come Uber), non avere più un informazione indipendente (perché tutto dovrà corrispondere alla censura del gradimento, dei “like”), non possederemo più danaro (sostituito da BitCoin), non possederemo più degli hard disc o altri devices per la raccolta dei nostri dati, poiché le nostre memorie e i nostri ricordi saranno su delle “nuvole” (Cloud storage) e così via… facendo sì che le nostre vite possano essere permanentemente monitorate, verificate, capitalizzate.
“Just Like Arcadia”, veduta dell’installazione al Krakow Photomonth festival (particolare), 2016, stampe su PVC trasparente
Ma torniamo alle nostre amate fotografie. Nelle condizioni sopra descritte sarà impossibile non solo stabilire la proprietà intellettuale ma anche seguirne i percorsi e capire che fine faranno le nostre immagini. Con il cloud storage infatti assistiamo ad una totale dematerializzazione del formato, che non è più un oggetto bensì una forma astratta che vive nella rete, viaggiando per strade che ci sono per lo più ignote.
Più si smaterializza il formato, più la proprietà intellettuale diventa meno chiara e arriverà presto il tempo in cui anche le fotocamere “professionali” saranno connesse in rete per archiviare immediatamente i files (i cellulari già lo fanno), ma dove? perché? e quanto ci costerà questa cosiddetta condivisione in termini di libertà e privacy?
La fragilità del digitale e la fragilità del futuro
La nuova questione che nasce con tutto questo discorso riguarda – oltre alla proprietà intellettuale – la proprietà della memoria: un problema sociale e politico.
Con l’età moderna il potere di conservare la memoria è stato storicamente affidato agli Stati: i musei e gli archivi nascono e si diffondono con la rivoluzione industriale, ed è lo Stato che decide cosa deve essere conservato e cosa deve essere di libero accesso e come.
Ma in questi ultimi anni stiamo registrando un fenomeno nuovo e per certi versi inquietante: la raccolta dati, archiviazione (e riutilizzo) di dati personali da parte di grandi aziende multinazionali. In altre parole, stiamo parlando della proprietà della memoria collettiva.
Questa è a mio parere una questione importante tanto quanto se non più di altre problematiche riguardanti la raccolta, il monitoraggio e la vendita di dati personali a scopi commercial (Big Data).
Ovviamente ciò che queste aziende fanno con i nostri dati è cruciale, così come il fatto che siano completamente libere da qualsiasi controllo, ma ancora più rilevante è il fatto che delle entità private ed a noi sostanzialmente estranee abbiano il potere di preservare la nostra memoria collettiva, e pertanto di (ri)scrivere la Storia.
In altre parole se fino ad oggi, in maniera più o meno democratica, gli stati si proponevano di salvaguardare la memoria e la storia dei territori, in futuro questo compito potrebbe essere affidato a delle corporation.
La memoria (non solo fotografica) si sta quindi separando dal supporto fisico (libro – disco – stampa – hard disc) per diventare qualcosa di liquido, di cui non siamo più proprietari e che non possiamo controllare.
In questo scenario non basta più semplicemente saper leggere le immagini per poterne riconoscere il loro messaggio ideologico intrinseco, ma occorre difendere il valore pubblico e universale di quelle immagini e quei dati che conservano la nostra memoria privata e collettiva.
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