Nel mandarmi questo scritto a commento del suo intervento a Camera con Vista presso la GAMeC di Bergamo, Alessandro Sambini ha fatto quello che forse noi tutti facciamo raramente: ricostruire, anche solo per sommi capi, la linea evolutiva della propria storia. Lo si fa raramente, per tante ragioni. Una potrebbe essere quella del non voler ritrovare le proprie ingenuità, i propri errori e fallimenti. Un’altra, all’opposto, potrebbe stare nel fatto che spesso siamo sempre proiettati nel futuro, prossimo o lontano, in quello che dobbiamo fare, in quello che vorremo fare e dunque ci riesce difficile fermarci a ripensare il passato. Un’altra ancora – rara e difficile – potrebbe stare nella considerazione razionale che il tempo non esiste come linea continua e progressiva, o che, addirittura, per molti versi sia il passato che il futuro non esistano: o forse siano presenti dentro di noi solo con dei frammenti, delle istantanee a volte casuali – sopravvissute in un caso, sperate nell’altro.
Mi fermo qui, perché fior di filosofi si sono occupati delle questioni legate al tempo ben meglio di me. Quello che mi preme dire è che credo che sia utile e necessario, in certi punti del proprio percorso, fermarsi un momento e provare a rintracciare il senso evolutivo di quello che si è fatto, riconoscendo le tracce dei cambiamenti sottili che ci hanno man mano portato al punto dove siamo. Alessandro Sambini lo fa, con questo testo, con l’ironia, la solidità e l’onestà che contraddistingue tutto il suo lavoro.
Caro Luca, ho impostato il mio intervento sul tuo blog come quello di Bergamo alla GAMeC ed è, esattamente come per Bergamo, un tentativo di raccontare il mio percorso di ricerca fino ad ora, nell’ottica di un quieto discorrere attorno a quella che è la mia personale esperienza con le immagini.
Lavoro con le immagini dal 2004, quando ho iniziato a fotografare i gatti di casa e i cigni sul canal bianco con la digitale che ci davano in prestito all’università di Bolzano.
Mi piacevano le fotografie belle e a quei tempi c’era molta tranquillità attorno alla filiera delle immagini fotografiche: non esisteva Flickr oppure non c’era una connessione internet sufficientemente veloce (avevamo il 56k) a Trecenta (il mio paese) per pensare di scambiare immagini con persone all’altro capo del globo. Dopo di questo ho iniziato a lavorare su immagini più brutte, esteticamente limitate, che avevano però un senso (apparentemente) Altro. Mentre il cigno mi interessava come una sorta di esaltazione visiva del cigno stesso nel contesto in cui si trovava, avevo deciso di provare a creare immagini che non parlassero necessariamente solo di quanto era stato fotografato ma anche di altro, magari invisibile. E se prima, parlando di invisibile, mi riferivo magari all’armonia stereotipata che la coesistenza di elementi da “favola” nella stessa inquadratura potevano suggerire – il cigno (in realtà notoriamente infido) l’acqua e il
luccicare del sole sulla superficie del canale, magari in bianco e nero – successivamente erano temi legati alle mutazioni culturali che investivano la società, al cambiamento delle modalità di relazione tra le persone. Erano fotografie che scattavo e che stampavo al mini-lab per guardarle e farle vedere agli amici. Col tempo e lo studio, però, ho inavvertitamente sovraccaricato le fotografie di significati ritrovandomi con immagini brutte e silenti, sovraccaricate dalla cacofonia che creavo, come quella di questo anforaro, che in teoria doveva narrare diverse cose.
Allego quanto scrivevo in fase di preparazione dello scatto:
In basso si vede un pakistano che vende anfore in fondo a sinistra una fattoria di cinesi che sta svendendo gli attrezzi agricoli che ha trovato all’interno del capannone una volta acquistata la proprietà. Nel centro, al di là della strada (una sorta di muraglia, di divisorio) sostano, sotto assedio, i vari individui che si sfogano nell’acquisto dei beni.
L’inquadratura è simile a questa anche se vorrei farla un po’ più ampia sulla destra, un po’ più dall’alto e un po’ più zenitale, non di molto. Quello che vorrei è far sembrare, con l’aiuto della post-produzione, il centro commerciale come un fortino attorno al quale, ben distanti e soprattutto “evitabili”, stazionano gli stranieri con le loro attività.
Questa è una prova per far vedere grossomodo il punto di vista. La luce vorrei fosse diffusa, speriamo che ci sia nebbia o nuvoloso. Vorrei costruire una super-panoramica con diverse lastre messe assieme, scattate in verticale (5 o sei), la luce che c’è dalle 2 alle 4 rimane costante (se c’è nebbia o è nuvoloso) per questo non dovrei aver problemi di esposizioni diverse tra scatto e scatto. Ci sono molti dettagli, per esempio nella “vasca”, dove è immerso il centro e le macchine, ci sono dei cartelloni con scritto “vietata ogni forma di vendita ambulante”. Il pakistano in primo piano (che non si vede ma che si vedrà, adesso è nel ducato) si appropria di quella zona abusivamente, potrebbe stare solo due ore ma ci sta tutto il giorno. Lui viene in questo posto a vendere solo il sabato, da Rovato. Mi piacerebbe farlo in luce mista. Forse non m’interessa molto vedere le persone statiche, ferme, comunque se uso due secondi, magari riesco a beccare qualcuno nella “vasca” che rimane immobile.
Per fare la panoramica userei un normale o al limite un 40/42, robe così, in modo da non impazzire del tutto nella fase di unione. Ecco.
I riferimenti di questo progetto sono Zygmunt Bauman in particolare una frase presente ne La società individualizzata: “per certi residenti della città moderna […] lo straniero è piacevole quanto il tratto di mare su cui si fa surf e nient’affatto pericoloso. Gli stranieri gestiscono ristoranti che promettono esperienze insolite ed eccitanti alle papille gustative, vendono oggetti curiosi e misteriosi su cui fare quattro chiacchiere al party successivo”. Bauman trova in dualismo la parola chiave di questo saggio. Un dualismo che caratterizza attualmente lo stato degli stranieri e che rischia di polarizzarsi ulteriormente e che vede “a un estremo lo straniero (e la diversità in generale)” che “continuerà ad essere concepito come una fonte di esperienze piacevoli e soddisfazioni estetiche; all’altro estremo gli stranieri continueranno ad essere la terrificante incarnazione della fragilità e dell’incertezza della condizione umana, l’effige naturale per tutti i futuri roghi rituali dei suoi orrori”. Immediatamente ho ricondotto queste parole alla zona fotografata che, a mio parere, evoca, visivamente, in parte, le parole di Bauman. Oltre a Bauman mi ha ispirato il saggio consegnatoci durante il workshop, inerente alla “tolleranza liberal”, una “tolleranza” che “accetta l’altro folcloristico deprivato della sua sostanza”. Sempre in merito alla tolleranza, mi sono ricordato anche di Pasolini che nelle Lettere luterane parla di tolleranza nominale vs. tolleranza reale considerando quest’ultima “qualora ci fosse, una contraddizione in termini” e definisce la parola tolleranza, nel senso comune, come una “tolleranza raffinata”. In poche parole finché il diverso rimane zitto, non agisce da diverso, lo tolleriamo, appena apre bocca ci incazziamo. Ecco.
La foto finale non era poi male ma era molto lontana da tutto quello che volevo dicesse.
Constatai quindi una mia incapacità di adoperare efficacemente questo mezzo espressivo. Con la nascita di Flickr, infine, capii che ormai c’erano fotografi a sufficienza, che l’idea di fotografo amatoriale e di fotografo “che aveva occhio”, figure in passato rare, uniche, erano sparite (perché forse mai esistite). Decisi allora di smettere di creare immagini nuove e di sfruttare quelle già esistenti.
Il primo passaggio fu quello di riprendere le immagini televisive poi quelle amatoriali di YouTube. Infine ho ricominciato a produrre immagini di performance che realizzavo io. Questa in particolare è un documento di una gara di castelli di sabbia che ho organizzato dove lo scopo era rifare delle torri militari realmente esistenti. È la prima fotografia che facevo con il banco ottico dopo circa sei anni. Tutto ciò mi porta a pensare che forse non avesse tanto senso per me caricare di significati immagini che non ne avevano e che se proprio volevo dire tutte quelle cose aveva senso costruire una realtà alternativa per poi documentarla.