I personaggi più ingombranti sono alcune fotografie

Diciamolo subito: Fabrizio Bellomo è stato, qualche anno fa, nel corso che condivido con Francesco Zanot presso il Master in Photography and Visual Design NABA/FORMA uno degli studenti più indisponenti e provocatori, fastidiosi, che abbia mai avuto. Ma i suoi lavori sono sempre stati tra i più brillanti e intelligenti. Credo che ancora oggi sia da questa miscela esplosiva che i suoi lavori traggano la fascinazione che si meritano.

Fabrizio Bellomo ha oggi già raggiunto e superato quella prima soglia nel cammino di un artista che per i più è già difficile superare: il trovare dentro sé stessi il fattore chiave del proprio lavoro – non tanto dal punto di vista espressivo, che ad esempio nel caso di Bellomo è piuttosto elastico e libero, quanto piuttosto dentro le profondità dove si formano le linee di comportamento, le sensibilità per gli stimoli da raccogliere, in sostanza dove si trovano le porte segrete da aprire per accedere al proprio mondo.
I lavori che qui ci presenta – con le sue parole, come già abbiamo qui visto fare a Teresa Giannico, con la quale condivide la provenienza barese – incrociano in molti casi fotografia e video, utilizzando le forze di entrambi i mezzi in una chiave apparentemente semplice, ma di spessore e intensità rari, calati come sono nella vita quotidiana e nelle sue follie.

BELLOMO_litoranea_2011

Fabrizio Bellomo, Litoranea San Giorgio – Torre a mare, 2011

 

Bellomo affronta sempre la realtà con un atteggiamento che al primo tocco ci appare cinico e sprezzante, o comunque così ironico da metterci quasi a disagio. Poi, misteriosamente, pian piano ci accorgiamo che sotto quell’aspetto si muovono sentimenti profondi: di appartenenza, di affetto, di empatia.
Non è mai elegante citare se stessi, ma incollo lo stesso qui alcune frasi che ho rivolto di recente in privato a Fabrizio (del quale ho talvolta la possibilità di vedere in anteprima alcuni lavori) anche perché so che vi si è riconosciuto. Per inciso, si tratta di una importante produzione di un lungometraggio intitolato L’albero di trasmissione, sorta di surreale documentario su una famiglia di inventori sfasciacarrozze…

Fabrizio era un sacco di tempo che non vedevo una cosa così ipnotizzante.
È davvero tuo: bastardo e commovente, durissimo e affettuoso, tutto mescolato in un groviglio intelligente. Mi ha anche fatto tanto pensare a quanto la pazzia dei nostri padri ci viene trasmessa e a quanto poi noi la trasmettiamo ai nostri figli, in un flusso inarrestabile di follie che si propagano per migliaia di anni, nel tempo e nello spazio…
(però un treppiede nelle riprese fisse potevi anche usarlo! Forse essere professionali non fa artista?) 🙂

La fotografia entra nel lavoro di Bellomo per la sua ipotetica fissità – che però è sempre negata dal fatto di usare il mezzo sbagliato, o meglio nel modo sbagliato: una fotocamera usata in modalità video. So benissimo quanto questa sia ormai una prassi abituale e quanto alcuni apparecchi fotografici siano ormai usati quasi solo per le loro funzioni video, ma quello che Fabrizio Bellomo fa succedere è che l’apparecchio mantiene la sua essenza fotografica pur non scattando fotografie – la qual cosa è interessante.
La crudele empatia che anima i suoi lavori si esprime anche così, con un uso disturbato dello strumento, ossia senza dimenticarne mai le radici ma forzando il suo intervento, la sua presenza nel mondo. Un mondo tuttora convinto che una macchina fotografica serva ancora a fare fotografie e che dunque si mette in posa e aspetta il famoso istante decisivo, che semplicemente non c’è più.
Anche Bellomo in un certo senso è sempre dannatamente presente nei suoi lavori, lo sentiamo quasi respirare vicino all’ottica – anche nei lavori più strettamente fotografici, che comunque puntano ad allargarsi, a farsi giganteschi. Non è più fotografia, di quella che si appoggia sul tavolo o si appende al muro: è una cosa sempre in bilico verso quel qualcos’altro che ancora non esiste e che quelli come Fabrizio Bellomo stanno oggi cercando: raccogliendo, producendo, sperimentando, sbagliando, riprovando.
Gli stessi lavori, e le scarne parole di Bellomo che seguono, un po’ lettera e un po’ riflessione, dimostrano quanto questa ricerca abbia per forza di cose modalità ampie e curiose. Le risposte potrebbero nascondersi dove meno ce lo si aspetta, e dunque tocca muoversi a tutto campo – e a volte tocca anche invaderlo, il campo.

 

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Fabrizio Bellomo, Italia, Forza, 2005

Italia, Forza. 2005
Questa è un immagine che ho riscoperto solo alcuni anni dopo la sua realizzazione. Scattata in diapositiva nel 2005, ho iniziato a usarla solo a partire dal 2008/09. Ricordo che in un periodo in cui costruivo sempre dei mini-set “abbastanza naturali”, o comunque sempre giocando nel creare commistioni fra location e/o personaggi reali con il mio intervento, ritrovai quest’immagine mentre stavo facendo una carrellata di ricognizione nel mio archivio di diapositive. Fu un’epifania, niente di quello che avevo costruito in quel periodo era tanto equilibrato nei colori, nei contenuti e nella forma come questo carretto con cavallo bianco su sfondo nazionalpopolare. Mi sembrava, e mi sembra tuttora, un set neorealista, ma il mio intervento qui si limitò a scattare una fotografia, una delle poche occasioni in cui mi sono limitato a fare solo questo gesto. Fu un’epifania perché, andando a ritroso, credo che di li in poi ho ricercato una commistione maggiore fra realtà e finzione nella costruzione dei lavori, che siano immagini statiche o in movimento.

 

32 dicembre, 2011
Da questo lavoro si sono ramificate una serie di riflessioni riguardo l’immagine fissa e le immagini in movimento.
È un lavoro che nasce prima di tutto dalla macchina; erano in quel periodo da poco disponibili sul mercato le prime reflex che giravano anche in full HD – è stato possibile realizzare questo lavoro grazie a questa potenzialità della macchina e quindi grazie alla voglia di analizzare i comportamenti umani rispetto alla presa di coscienza di “divenir immagine”. Poi credo credo nasca anche dalla mia empatia per questi luoghi e personaggi che fanno parte dei miei ricordi di infanzia/adolescenza e del mio immaginario più intimo.

 

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Fabrizio Bellomo, Abbi cura della macchina su cui lavori è il tuo pane!, 2012

Abbi cura della macchina su cui lavori è il tuo pane!, 2012
Questo è un lavoro che tu conosci bene, lo hai “subìto” personalmente essendo in prima persona un abitante di Sesto San Giovanni (la Stalingrado d’Italia – mi fa sempre sorridere quest’appellativo), comune dove l’opera è rimasta installata per un paio d’anni. Era la prima volta che mi veniva commissionato qualcosa, nel caso specifico dal MuFoCo di Cinisello Balsamo.
Sono sempre più affascinato da questo connubio uomo – lavoro – macchina. Questa frase è un monito molto lucido su quello che siamo – tuttora, nell’era digitale la macchina è magari più gentile ma…
Ricordo con piacere un episodio legato a quell’installazione: ero in quel periodo solito girovagare sui social network e sul web alla ricerca di commenti, fotografie e critiche riguardanti questa grande installazione; trovai un utente che aveva commentato una fotografia dell’installazione scrivendo più o meno queste parole “stamattina ci sono passato davanti con la macchina, appena arrivato in ufficio ho pulito il mio PC e gli ho dato un bacino”.
All’epoca ti chiesi di fare un testo per il catalogo, mi sembrò totalmente azzeccata la mossa anche per il tuo passato operaio, la traslazione da ambiente operaio ad ambiente culturale – da industria fordista a industria culturale – è presente in tutta l’operazione legata a questo lavoro, dalla migrazione e traslazione di campo della targa alla migrazione di chi ha scritto il testo critico.
La targa trovata in una vecchia acciaieria abbandonata di Bari ha subìto un processo di cambio di proporzioni e di migrazione a Sesto San Giovanni nel carroponte dell’ex Breda Marelli (oggi luogo per concerti ed eventi) – migrazione uguale a quella che gli operai ex contadini hanno effettuato durante il novecento e processo simile a quello che molti operatori culturali effettuano anche oggi, da sud a nord,  per lavorare nelle industrie culturali.

Nota di Luca Andreoni: ho pensato di inserire il testo che a suo tempo scrissi per Fabrizio, fortemente autobiografico, nella pagina della mia biografia. Lo trovate qui, più o meno a metà pagina.

 

BELLOMO_persone

A cura di Fabrizio Bellomo, Le persone sono più vere se rappresentate, Postmedia Books 2014

Le persone sono più vere se rappresentate, 2014
È un libro edito da PostmediaBooks nato da una rassegna, a sua volta nata da certe mie cartelle disordinate e confuse che campeggiavano nel mio desktop.
Partendo da alcuni miei lavori, dalla serie relativa a 32 dicembre mi prese il capriccio di cercare cosa fosse stato fatto di simile o comunque in quella direzione anche da altri autori, artisti, registi pubblicitari ecc… Attraverso conversazioni con persone che stimo, materiali d’archivio, lavori di artisti e tante immagini sono andato alla ricerca delle metodologie, di cosa faccia si che alcuni lavori riescano a imprimere al loro interno una sorta di tensione con e verso la rappresentazione stessa.
Ragionare in modo più critico, riflessivo e teorico è stato un passaggio bello e importante per la mia ricerca. Sono metodologie che oggi porto con me anche nei lavori più operativi.

 

L’albero di trasmissione, 2014
È il mio primo film, è un lavoro a cui sono ancora troppo vicino per riuscire a parlarne con scioltezza. Mi fa piacere però accennare che da questo film sta nascendo, molto lentamente, anche un piccolo libro sul quartiere barese di San Cataldo, quartiere peninsulare che ospita il faro della città, dove il film è interamente ambientato.
Il volumetto sarà edito dalla casa editrice romana Linaria.
Uno dei personaggi più ingombranti del film sono alcune fotografie.

 

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Quanta resistenza fai per non esserlo

Il giorno dopo l’intervento di Vittore Fossati del quale ho pubblicato ieri un suo testo ho ricevuto questa splendida email da Francesco Pedrini, collega in Accademia a Bergamo che, oltre che bravo artista, è persona gentile e intelligente. Ho pensato subito che sarebbe stato bello pubblicarla a ruota del testo di Vittore e Francesco ha acconsentito. Credo che in questo testo vi sia tutta l’emozione e la profondità che sono fluttuate nell’aria quella sera.

Vittore Fossati Oviglio 1981

Vittore Fossati, Oviglio 1981

 

Da: francesco pedrini <info@francescopedrini.me>
Data: 08 maggio 2015 11.16.01 GMT+02.00
A: Luca Andreoni <luca@lucandreoni.com>
Oggetto: Vittore conferenza

Ciao Luca, scrivo per ringraziarti.
Sono anni che ascolto interventi e conferenze ma ieri è stata proprio una esperienza di profondità.
Vittore tra il serio e il faceto, ha punto e punzecchiato, ma direi pure travolto i miei stati d’animo nei confronti dell’essere artista. Ho subito una serie di leve emozionali spiazzanti.
Ti prego di non credere che io sia sprovveduto, o che sia una fascinazione da “groupie”, ma sono abituato a portare al punto critico ogni discorso e con Vittore ne ho fatto forte esercizio.
Per assurdo non è stato un incontro sulla fotografia ma sul processo mentale che ti sfinisce prima di scattare la fotografia. Chiunque ci abbia giocato la vita questo lo sa. Anche il ritmo della conferenza è stato questo, centinaia di sollecitazioni stupende, vaghe, poi precise e poi click, lo scatto. Sembrava di essere nella sua testa durante un progetto artistico. Ebbene sì, la fotografia è cosa mentale quando hai gli strumenti…
Vittore ieri si è esposto enormemente, si è presentato armato di mille dispositivi teorici ma li ha deposti e si è messo a nudo, coscientemente e forse tatticamente, comunque sia ha vinto lui.
La fotografia non è questo? Ti armi di cose, strumenti, pensieri, teorie, suggestioni filosofiche e storiche; una specie di “noise” interiore e poi ti ritrovi con “solo un occhio” dentro un mirino e il mondo fuori (window) e click un istante.
Se la filosofia come l’arte ha il compito di agitare ambiti ieri è accaduto.
Come non emozionarsi quando Vittore dice che fa fotografie per riconoscenza a Ghirri, il quale una sera negli anni settanta lo ha chiamato dalla lattaia per invitarlo ad una mostra e lui non aveva nemmeno finito il suo primo rullino a colori. Chissà poi se la lattaia aveva le tette grosse come la tabaccaia di Fellini. Ma comunque, trovare un artista che si fa canale per passare informazioni, non mettendosi mai in prima persona persino quando mostra le proprie fotografie è disincanto, forse tecnica comunicativa, ma in realtà è semplicemente amore disinteressato per ciò che fai. Cosa dimostra che sei veramente un artista? Quanta resistenza fai per non esserlo.
Vittore è un perito aeronautico, difatti fotografa arcobaleni, Ghirri era un geometra e infatti fotografava gli Atlanti. Tu Luca sei il ghiaccio, si vede e si sente, ma il ghiaccio è acqua, conduttore per eccellenza.
Avrei voluto fargli mille domande ma odio chi fa domande alle conferenze, perché ad un vulcano che erutta non si fanno domande, ci si siede, si guarda, si ascolta e si vacilla possibilmente senza troppi click…

ciao, un forte abbraccio

francesco pedrini

 

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Vittore Fossati – L’otto rovesciato

Ho ricevuto questo testo da Vittore Fossati pochi giorni fa, dopo il suo intervento a Bergamo negli incontri GAMeC sui rapporti tra fotografia e arte. Fossati nell’incontro è stato assolutamente generoso, perché ha incrociato una forte componente analitica, saggistica, con lo svelamento profondo ed emozionante dei propri percorsi mentali mentre realizza le sue fotografie. Non mi so spiegare del tutto come gli sia stato possibile tenere così bene insieme questi due aspetti così diversi, ma credo che questo testo in qualche modo lo possa fare intuire.
Il testo che potete leggere qui sotto è la revisione degli appunti di un discorso da lui tenuto in occasione della giornata di studio Come pensare per immagini? Luigi Ghirri e la fotografia, svoltosi alla British School at Rome il 9 ottobre 2013 – ma è anche vicino, per intensità e contenuti, alla lezione che ha appena tenuto a Bergamo.

Sono particolarmente orgoglioso di proporvelo in questo blog, per varie ragioni: la prima è che è molto raro che un autore ci apra, diciamo così, le porte sui suoi meccanismi più profondi e sui pensieri che intervengono mentre lavora. La seconda è che Vittore Fossati è una figura tanto grande quanto schiva nel panorama della fotografia italiana. Tra me e me lo definisco un minimizzatore: del suo ruolo e del suo lavoro – mentre anche solo questo testo ci dimostra perfettamente il contrario. La terza ragione sta nella rarità della sua presenza nel web, così come della rarità in generale di suoi testi (cosa quest’ultima che lo accumuna purtroppo a molti altri). Ve ne sarebbero altre, di ragioni: ma mi fermo qui e vi lascio a questo eccezionale contributo.

 

Vittore Fossati

 

L’otto rovesciato
Appunti per un’idea di infinito nell’opera e nella vita di Luigi e Paola Ghirri

La parola infinito compare molte volte come concetto, titolo, evocazione poetica, a volte anche nel lavoro quotidiano di Luigi e Paola Ghirri.
Un’opera di Ghirri s’intitola Infinito ma poi, ad esempio, avevano scelto il nome di infinito per il loro studio di grafica e fotografia negli anni in cui hanno abitato a Formigine.
Tra l’altro, i simboli della messa a fuoco usati come fregio per il biglietto da visita sono stati riprodotti anche nel libro, che rende loro omaggio: Fin dove può arrivare l’infinito che deve il titolo a quello del testo di Giorgio Messori – scritto del 1992 -, originariamente pubblicato nel primo catalogo realizzato dopo la morte di Ghirri e cioè Vista con camera, curato da Paola e da Ennery Taramelli la quale, peraltro, ha intitolato un suo saggio Mondi infiniti di Luigi Ghirri.
Il mio contributo inizia dunque così e continuerà per una decina di minuti fra ricordi e divagazioni.

L’otto rovesciato
Paola mi aveva raccontato che durante le esequie di Luigi nella chiesetta di Roncocesi lei era seduta in un banco che portava un numero, l’otto, scritto su una targhetta. Durante la cerimonia questa targhetta, alla quale evidentemente già mancava uno dei due chiodini che la fissavano, era ruotata di 90° finendo per indicare così un otto rovesciato, il simbolo dell’infinito.
Paola credeva molto a questi accadimenti, al manifestarsi di queste coincidenze.
Comunque, fatto sta che Paola è mancata il giorno 8 e la sorella, interpretando quello che forse sarebbe stato un suo desiderio, volle che il funerale avvenisse l’11 novembre e quindi l’11/11/2011.
11-11-11. Un numero palindromo che, appunto, può essere letto in un senso o nell’altro. Né capo né coda, né inizio né fine che, proprio come il nastro di Moebius, può essere letto o, per meglio dire percorso all’infinito.
Come si ricorderà, nel luglio 2011 un incendio sviluppatosi nel sottotetto aveva devastato la casa di Roncocesi. Paola si era trasferita in un’altra abitazione e poi, dopo circa quattro mesi, moriva.

Dicembre 2011
Daniele De Lonti, Gianni Leone, io e Beppe Sebaste, temendo una radicale trasformazione (poi per fortuna non è stato così), siamo entrati nella casa di cui eravamo stati tante volte ospiti per raccontare il nostro commosso legame con gli oggetti e le memorie di un luogo, l’ultima casa abitata da  Luigi e Paola.
Muratori e carpentieri avevano iniziato il lavoro di ripristino. Mobili, libri, dischi in gran parte ammassati nelle stanze inferiori. Alle pareti umidità e muffa provocata dall’acqua per lo spegnimento dell’incendio. Freddo. Buio. I ponteggi all’esterno impedivano l’apertura degli scuri. Molte foto sono state fatte con l’ausilio di una lampada che ci portavamo dietro da una stanza all’altra, da un piano all’altro.
Ovunque, come si può immaginare, disordine e polvere. Polvere. Una volta, alla radio, ho sentito il filologo Giovanni Semerano che diceva che la parola infinito deriva da quella accadica che significa polvere. Adesso ne ero ancora più convinto.
Inizio a fotografare. Sono nello studio al piano terra. Prendo una piccola scatola rossa, che spunta da una pila di libri. La poso sull’impolverato tavolo color verde penicillina, al quale Paola era solita sedersi per lavorare all’impaginazione dei libri. Disfo il nodo di stoffa nera che la teneva chiusa. Il nastro cadendo sul tavolo forma, con la sua ombra, la figura dell’otto. Paola, che compare nella prima foto della scatola, sembra guardarlo. Faccio questa fotografia tra la sorpresa e il turbamento.

Vittore Fossati, Nastro

Mi sposto nel corridoio. Sullo scaffale vedo un altro otto. Questa volta si tratta di un numero dipinto su una piastrella di ceramica, quelle dei numeri civici. Accanto trovo una cartolina che, muovendola, e a seconda di come la si tiene inclinata, mostra tre fasi di un’eclissi di sole. La fotografo nelle tre posizioni e più che un’eclissi adesso mi sembra il triste racconto di uno spegnimento.

Vittore Fossati, eclissi 1

Vittore Fossati, eclissi 2

Vittore Fossati, eclissi 3

 

L’infinito
La parola fa venire subito in mente il canto più noto di Leopardi. In questo canto l’infinito viene detto tramite continue comparazioni tra il vicino e il lontano, tra ciò che ci è prossimo, che appartiene al finito, alla finitudine della condizione umana e ciò che è distante, che sta all’infinito, e che appartiene all’orizzonte dell’incommensurabile.
Dunque, Il questo e il quello:

[…] a questa siepe…
… interminati spazi di là da quella
E come il vento odo stormire
Tra queste piante
Io quello infinito silenzio
A questa voce vo comparando…

Ora mostro la copertina di un libro di racconti di Antonio Prete (pubblicato nel 2000) il quale, tra l’altro, si è anche molto occupato di Leopardi, scrivendo bellissimi saggi.

GHIRRI COPERTINA

Il racconto che apre il volume è dedicato alla figura di Giuseppe da Copertino, un frate vissuto nel ‘600, famoso per i suoi “voli”. Le cronache raccontano che durante l’estasi si sollevasse da terra. E insomma, per farla breve, per le sue virtù e devozione venne ammesso senza esami al sacerdozio.
Ma chissà perché proprio questa foto per questa copertina.
L’avevo chiesto a Paola e mi rispose che era del tutto casuale, si era trattato, come in molti casi, di una scelta redazionale.
Copertina / Copertino (un gioco di parole che sarebbe piaciuto a Ghirri)
Paola, a proposito di Copertino, mi disse che quando, durante un viaggio in Puglia Luigi si imbattè nel nome di questa località e lesse anche l’indicazione di un santuario dedicato a questo san Giuseppe esclamò: «ma allora è vero… allora esiste per davvero» e raccontò a Paola che sua madre, quando Luigi frequentava le elementari, gli aveva messo in un quaderno un’immaginetta di questo santo perché, almeno ancora in quegli anni, era credenza che san Giuseppe da Copertino proteggesse i bambini che non andavano troppo bene a scuola. Paola aveva detto «quelli un po’ asini».
Dunque, il racconto di Prete sulla visionarietà di questo mistico s’intitola Portenti di fra Giuseppe da Copertino ed inizia così:
«Giuseppe Boccaperta lo chiamavano, perché era sempre incantato, sempre con la bocca spalancata per la meraviglia, che cosa vedi? gli chiedevano, che cosa vedi, Giuseppe?…»
Noi invece adesso potremmo chiederci, a proposito di questa fotografia, cosa vedeva Luigi.
La foto mostra un gioco per bambini, un’altalena come tante su una spiaggia della riviera adriatica. È una foto molto semplice, apparentemente forse anche banale. Però Luigi qualcosa aveva intravisto e curando la distanza di ripresa fa in modo che gli anelli che pendono dal braccio sinistro della struttura sfiorino, indichino, la prossimità del finito, la linea che separa la terra dal mare, mentre quelli che scendono dall’altro braccio, tocchino la linea dell’orizzonte che separa il mare dal cielo. Ghirri sostituisce la siepe leopardiana con un’altalena che appunto, ci suggerisce – visivamente – l’altalenanza tra il questo e il quello, tra ciò che sembra poter appartenere al vicino, alla nostra possibilità di conoscenza sensibile e ciò che invece rimarrà sempre lontano – allontanato all’infinito – su un vago orizzonte.

Ancora una fotografia di Ghirri (Trani, 1982)

Luigi Ghirri Trani 1982

Peter Handke nel suo libro Nei colori del giorno, dedicato all’esplorazione di uno dei luoghi della pittura di Cézanne, la montagna Sainte-Victoire, racconta che, a un certo punto, scendendo da un sentiero, lancia una mela per aria, la riagguanta e dice di aver fatto questo per legarsi al paesaggio.
La foto mostra un’anfora collocata come decoro sulla balaustra di un tratto del lungomare di Trani. Al centro della foto non c’è l’anfora ma la linea mediana tra l’anfora e l’ombra dei rami di un albero; ombra analoga per forma a quella dell’anfora. Ghirri si lega al paesaggio in questo modo, unisce il questo al quello, adottando inoltre un punto di ripresa che gli permette di far collimare, di sovrapporre la linea obliqua del profilo della nuvola con quella che separa – per il diverso colore – la superficie dell’anfora: è una sorta di trompe-l’oeil che attira  lo sguardo verso una lontananza infinita.
Molte foto di Ghirri ci mostrano quello che c’è, quello che si vede più qualcos’altro.
Edward Weston, in una pagina del suo diario annotava: «ho fatto la fotografia di un tronco di una palma: è la fotografia di un tronco d’albero più qualcos’altro. Non so cosa darei perché qualcuno mi dicesse cos’è questo qualcos’altro…».

Novembre 2010
Io e Paola siamo stati a Bari per la presentazione del libro di Gianni Leone e stiamo tornando a Bologna con l’aereo.
Le nuvole sono sotto di noi. Adesso per guardare il cielo, le nuvole, dobbiamo guardare in basso e non in alto. Il punto di vista si è rovesciato.
Mi faccio dare i suoi occhiali, li appoggio al finestrino e faccio una foto.

Vittore Fossati, Occhiali Paola

Gliela mostro nel display e le chiedo: «chissà cosa può unire la parola otto alla parola ottica
Paola guarda la foto. Sorride.

 

 

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Francesco Jodice – La pratica dell’arte come poetica civile

Ricevo da Francesco Jodice e molto volentieri pubblico il testo di una sua conversazione con Carlo Sala che ben riassume anche i contenuti del suo intervento tenuto il 23 aprile scorso presso la GAMeC di Bergamo, all’interno del ciclo di incontri ancora in corso sul tema dei rapporti tra fotografia e arte. Nel bello spazio gentilmente prestato da Confindustria Bergamo, Francesco è stato come sempre molto generoso e ricco di stimoli per l’attento pubblico che assisteva, illustrando con chiarezza il senso del suo lavoro da molti punti di vista, dimostrandone l’impegno, la valenza politica e di ricerca, l’attenzione estetica e la complessa multidisciplinarietà.

Francesco Jodice, What We Want, Baikonur, T56, 2008

Francesco Jodice, What We Want, Baikonur, T56, 2008

 

Investigazioni private
Una conversazione con Francesco Jodice
di Carlo Sala

Hai iniziato il tuo workshop a Pieve di Soligo citando uno dei massimi scrittori contemporanei, Jonathan Franzen, che si è profondamente interrogato sulle sorti dell’Occidente. Pensi che stiamo attraversando una crisi culturale e sociale che va ben oltre quella finanziaria di cui tanto si parla?

Proverei a scomporre la locuzione “crisi dell’occidente”: come sappiamo la crisi economica mondiale è iniziata nel 2008 e ha avuto origine negli Stati Uniti con la crisi dei Subprime. Tra i principali fattori della crisi vi furono gli alti prezzi delle materie prime, una crisi alimentare mondiale, un’elevata inflazione globale, la minaccia di una recessione in tutto il mondo, una crisi del credito ed un crollo di fiducia nei mercati. Però fin dagli inizi del fenomeno molti analisti ritennero che non si trattasse di una vera crisi, poiché il termine crisi definisce periodo temporale durante il quale per almeno due trimestri consecutivi si ha un arretramento economico, cioè una riduzione del PIL, seguita da una rapida ripresa. Allora una crisi è un modello statistico di durata circoscritta e definita da una “curva di andamento” riconoscibile. A distanza di sei anni dal fallimento della Lehman Brothers mi sembra chiaro che la situazione che noi viviamo non è una crisi ma una nuova era glaciale, un assetto del tutto nuovo al quale col tempo ci adatteremo. Per quanto riguarda la questione occidentale mi sovviene che già molti anni fa Baumann aveva detto che presto i governi dell’occidente avrebbero dovuto affrontare il problema e dire ai popoli che il sistema del Welfare aveva fallito e non era più sostenibile. Questa invece è una crisi: una crisi di modello e di valori etico-culturali.

In tema di crisi e fotografia, un famoso esempio del passato è stata la campagna del 1937 promossa dal governo americano attraverso la Farm Security Administration per raccogliere delle informazioni sui problemi che investivano il settore agricolo. In quell’occasione venne affidato ad alcuni fotografi il compito di creare uno “stato di fatto” sulla situazione del paese allo scopo di sensibilizzare una parte cospicua della popolazione realizzando anche una politica del consenso.
Tu parli di “poetica civile”, quale ruolo possono giocare le arti visive rispetto alla situazione che stiamo vivendo? Come devono porsi gli autori contemporanei per evitare la retorica che ha caratterizzato tante indagini similari?

Molti ruoli ma è necessario intendersi e convenire su quali siano oggi “le arti” e quali i loro ruoli. Nella grande crisi americana la FSA utilizzò la fotografia e i suoi autori non come meri documentatori ma come dispositivi narrativi meta-progettuali, in grado di mostrare ai pianificatori e ai politici alcune linee di sviluppo alternative dei mutati paesaggi sociali americani. Io credo che la fotografia non abbia più quel ruolo, ne ha di nuovi e importanti ma non più quello. Nelle arti visive altri apparati narrativi hanno ora il ruolo di media condivisi (il cinema, i videogiochi, le web series, i virali sulla rete, youtube, etc). Sono altre le dinamiche dell’arte visiva che si fondono con la nostre concezioni di arte pubblica e di poetica civile.

Sono conscio che sei molto distante dall’attribuire alla fotografia un ruolo pedagogico, ma di certo uno dei messaggi che si evincono dalla tua ricerca è di utilizzare questo mezzo per innescare nel fruitore dubbi e spunti critici. Me ne vuoi parlare?

Non ho mai amato la fotografia dogmatica, pedagogica e con la presunzione di esaurire i discorsi. Credo che storicamente l’attitudine a pensare la fotografia come un modello esaustivo di narrazione delle cose del mondo sia una prerogativa di fotografi animati e sostenuti da buoni sentimenti più che da rigorosi processi di intellettualizzazione. Al contrario penso sempre alla fotografia come un luogo che non didascalizza le questioni osservate ma piuttosto le rende ancora più complesse. Per me la fotografia non contiene risposte ma piuttosto è il luogo nel quale impariamo a formulare bene le domande, uno spazio che, una volta attraversato, ci aiuti ad allestire dubbi ben strutturati o domande ben costruite.

Francesco Jodice, What We Want, Dubai, R36, 2009

Francesco Jodice, What We Want, Dubai, R36, 2009

Durante il secolo scorso i grandi avvenimenti e le mutazioni sono stati scanditi dalla fotografia attraverso un dialogo diretto e immediato con la realtà secondo un approccio che oggi appare anacronistico.
Una caratteristica presente nel tuo lavoro è che lo scatto finale – per quanto attento alla tecnica – deve necessariamente essere il risultato finale di un processo basato su una molteplicità di interrogativi e riflessioni. Mi racconti il tuo modus operandi nello sviluppo di un determinato filone di ricerca?

Quando inizio un progetto, ad esempio perché ho ricevuto un incarico site-specific, mi disinteresso quasi completamente della geografia del luogo e della sua fisicità mentre inizio uno scandaglio e una diagnostica dei fenomeni politici, culturali, sociali, economici e religiosi che lo hanno interessato con una attenzione particolare al suo “stato attuale”. Cerco degli eventi o dei fenomeni che per me sono al contempo localistici e universali. Solo quando ho individuato con chiarezza le storie che mi ossessionano inizio a fotografare ed è come se vedessi con chiarezza solo ciò che è inerente a questa casistica. Ecco perché spesso le mie fotografie sono molto elementari da un punto di vista formale ma sotto la apparente tranquillità compositiva restano in tensioni diverse i mutamenti geopolitici.

Francesco Jodice, What We Want, Osaka, T49, 2008

Francesco Jodice, What We Want, Osaka, T49, 2008

Che consiglio daresti a un giovane artista che vuole intraprendere un progetto fotografico volto a indagare un tema del presente?

Come intellettuale: Leggere. Connettere. Costruire. Disfare. Ricominciare tutto daccapo.
Come artista: mettersi di traverso.

In ogni tuo lavoro si intrecciamo molteplici spunti caratterizzati sempre da una lucida visione del presente. Attualmente a cosa stai lavorando?

A La notte del Drive-in. Un progetto avviato da poco, allestisco dei drive-in veri e propri nelle piazze periferiche delle città e provoco la partecipazione mista di persone del mondo dell’arte e gente del quartiere come strumento di trasversalità tra arte e società. Ho anche due nuovi progetti fotografici sul paesaggio italiano in corso in Italia di cui uno sul Monte Bianco. Nel frattempo cerco con fatica di portare avanti il mio progetto Citytellers, ovvero una serie di film sulle mutate condizioni socio urbane in diverse geografie del pianeta. Come sai con la Galleria Michela Rizzo di Venezia stiamo da tempo lavorando alla possibilità di realizzarne uno sulla città lagunare.

Hai visitato con noi alcune zone della provincia di Treviso, e in generale conosci il nord-est, come pensi che la crisi abbia mutato questo paesaggio sociale?

In realtà non conosco a sufficienza in nord-est al punto da poter fare un paragone con altre situazioni. Sono rimasto colpito dalla “chiarezza” di questo paesaggio socio-economico, la struttura pulviscolare delle piccole aziende e come questa rete fittissima di opifici e imprese si intersechi in modo inestricabile con la cultura familiare ed una serie di valori culturali, religiosi ed economici che hanno radici antichissime. Ho sentito anche il senso di smarrimento e paura per questa impossibilità di perpetrare quel modello e lo smarrimento per l’incapacità di capire i nuovi modelli economici, i nuovi mercati. Credo che tutto ciò abbia cambiato questo paesaggio proprio perché non gli permette di cambiare: la crisi economica, gravissima, ha congelato il rinnovamento non solo culturale ma anche fisico del territorio, potremmo girare un film e dire che è ambientato negli anni novanta senza temere smentita né dai luoghi architettonici né dalle abitudini quotidiane delle comunità.

Sia con Multiplicity che perseguendo il tuo progetto What We Want, hai indagato varie comunità del mondo. C’è un luogo che ti ha particolarmente colpito ed in cui hai visto una scintilla per il futuro?

I luoghi che ho indagato da solo o nei favolosi anni del collettivo Multiplicity oggi sono dei fossili. A loro tempo tutti sono stati dei paesaggi innovativi ma proprio perché sono diventati dei modelli imitati o contestati, adesso quei modelli sono superati, metabolizzati. Oggi ti direi che mi interessano alcune nuove città del far east, del sud africa e del golfo arabo con tutti i pro e i contro che si possono immaginare. Ma l’importante per me non è mai cosa osserviamo ma il metodo che costruiamo per osservare, non la cosa osservata quanto l’osservatorio in sé. Con Multiplicity ci definivamo “un agenzia di investigazione territoriale”. Era una definizione bellissima, per l’epoca.

 

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Un ambiente congelato e ambiguo

Il lavoro dei giovani è spesso costretto a inventarsi forme autonome di diffusione, ma anche di elaborazione teorica. E non è detto che questo sia un male. Nelle difficili condizioni italiane, va però detto, tra crisi infinite e rigidità intergenerazionali, produrre una seria ricerca artistica non è certo per i deboli di cuore o per gli scarsi di motivazione. Tuttavia, con un movimento che mi ricorda l’inevitabile spostarsi di un liquido che trova sempre una via di discesa grazie all’essere sottoposto alle forze gravitazionali, il lavoro di alcuni giovani riesce a crescere e a maturare, grazie alla spinta della lucidità e della determinazione che essi riescono a dedicarvi.

Credo sia necessaria in questa occasione una premessa: il mio punto di osservazione, riguardo al lavoro dei giovani, è al tempo stesso limitato e fortunato. Limitato, perché dato che credo di poter parlare solo di ciò che conosco bene, e non essendo un curatore o uno studioso di mestiere, il mio panorama si riduce di solito alla conoscenza del lavoro dei miei ex studenti (quei purtroppo pochi che negli anni dopo gli studi riescono a proseguire seriamente la loro ricerca) nonché ad altri incontri più occasionali. Entrambi i casi di solito richiedono un tempo di almeno tre anni perché ne siano confermate le eventuali buone impressioni iniziali. Il mio osservatorio è però anche fortunato, perché le molteplici attività didattiche che svolgo mi permettono da un lato di insegnare in alcuni dei luoghi migliori per lo studio della Fotografia in Italia (o meglio, del nord Italia) e dall’altro, grazie a esperienze quali una residenza che curo da anni in Valle d’Aosta, di incontrare anche giovani provenienti da altre validissime realtà.

Succederà insomma qui, ogni tanto, che io voglia porre sotto la vostra lente i risultati di alcuni giovani che conosco a fondo e che ritengo stiano lavorando molto bene – con lo spirito, che regola anche le mie modalità di docente, che quanto più riescano a sorprendermi con la loro intelligenza tanto più sia giusto che io vi dedichi attenzione e rispetto. Lo dico chiaramente: vi sono docenti che tendono a creare piccoli cloni di se stessi e vi sono altri docenti ai quali interessa solo poter aiutare, maieuticamente, i giovani a trovare un loro personale approccio. Spesso questi due aspetti sono compresenti: ma per quanto mi riguarda, direi che senza dubbio mi pongo nella seconda categoria. Per questo, presenterò qui anche lavori che non necessariamente corrispondono a quanto penso o amo sul piano personale riguardo alla fotografia. Certe cose vanno comunque dette, certe cose vanno comunque viste e i giovani talenti hanno il polso del mondo: veloce, fresco, deciso, e, nei casi migliori, brillante.

Teresa Giannico

Teresa Giannico, Landscapes in Milan

Teresa Giannico costruisce le sue fotografie, letteralmente, con un laborioso processo manuale che prevede l’utilizzo massivo di immagini – realizzate da lei stessa o in alcuni casi prese dal web – che vengono stampate in modalità bozza con una stampante economica, e poi utilizzate per rivestire dei rustici modellini in cartone grossolano che tutti insieme formano dei diorami, dei teatrini che riproducono in scala la realtà – il più delle volte non inventata ma presa da altre fotografie. Teresa Giannico infine fotografa questi plastici imperfetti e ottiene così quello che viene consegnato alla nostra visione.

Le imperfezioni, le ruvidezze del suo lavoro mi paiono essere uno dei tratti salienti della sua ricerca e credo che un po’ paradossalmente siano una delle ragioni principali della fascinazione che possono produrre le sue opere. Nei risultati finali resta traccia evidente di tutta la complessa sequenza di produzione, e questo toglie completamente quella sorta di patinatura liscia con la quale spesso le fotografie rivestono la realtà. È dunque un processo quasi brutale, quello al quale sono sottoposte le suggestioni di partenza sulle quali lavora, e allo stesso tempo il processo è controllatissimo in ogni suo passaggio: forse nel coniugarsi di queste due istanze sta una delle chiavi di comprensione di questi complessi lavori.

Potrei andare avanti ancora a lungo, tanti sono gli stimoli e i ragionamenti che possono saltar fuori… Ma quando ho detto a Teresa Giannico che mi sarebbe piaciuto mostrare qui il suo lavoro le ho anche chiesto se poteva buttar giù qualche sua riga di riflessione personale. Bè, contrariamente alle mie aspettative (basate sulle abituali enormi difficoltà di scrittura di cui molti giovani oggi soffrono) devo dire che mi è stato dato un testo lungo e interessante – a dimostrazione di una volontà introspettiva sul proprio lavoro che dovrebbe essere esempio per molti. Mi fermo dunque qui e lascio parlare Teresa Giannico, scegliendo alcuni brani del suo testo. Inframmezzano le sue dichiarazioni alcune immagini dei suoi lavori, di un suo recente quaderno di appunti e del suo studio: lavori che potrete approfondire e vedere per esteso nel suo sito.

 


 

Teresa Giannico

Teresa Giannico, Rogoredo

Ho iniziato a lavorare con i diorami nel periodo in cui studiavo fotografia. Mi ero resa conto di non riuscire ad avvicinarmi appieno a questo mezzo, al gesto della fotografia. Avevo un’altra forma mentis; ho studiato per tanti anni pittura e illustrazione, dunque sono cresciuta con quel tipo di approccio all’immagine. Ma già quando studiavo all’Accademia di Belle Arti di Bari realizzavo pochissimi dipinti, prediligendo il collage e frequentando piuttosto le aule di scenografia, trascorrendo molto tempo nei corridoi pieni di plastici, assistendo da dietro le quinte agli spettacoli teatrali nei quali lavoravano i miei colleghi. Il montare una scena è dunque qualcosa che ho sempre vissuto, così come son sempre fuggita da qualsiasi tecnica specifica: non la pittura, non la scenografia, questa volta non la fotografia. Ma la sfumatura di ognuna sì.

Nel mio lavoro ho scelto di parlare di luoghi, del modo in cui li guardiamo e li viviamo, e per farlo li ricostruisco da zero realizzando dei plastici che poi fotografo. Spesso i miei scenari sono realmente esistenti, ma la scelta di ricostruirli mi aiuta a estrapolare oggetti e ambienti da un contesto specifico, a sintetizzarne le forme ed i colori, a spostare l’attenzione di qualche grado: dall’oggetto in sé alla sua natura. Con la fotografia diretta del reale non raggiungerei la stessa ambiguità. La fotografia riconduce troppo a un luogo preciso e all’esistenza di questo.
La mia pratica si sviluppa prendendo informazioni dalla realtà e scegliendo degli spazi; di questi poi rielaboro ogni singolo elemento. Costruisco tridimensionalmente gli oggetti di riferimento sui quali poi incollo le texture in precedenza fotografate e poi stampate. Non le dipingo, perché la pittura ha insito nel suo fare l’astrazione dell’oggetto. Io cerco una mediazione.
Utilizzo il cartone perché è materiale che non ha velleità di modellismo, lascia anzi delle imperfezioni e quella matericità ha un senso perché non ho la presunzione che i miei oggetti risultino veri. Ma nemmeno palesemente finti. Il risultato al quale ambisco è quello di un ambiente congelato e ambiguo.

Il diorama che costruisco potrebbe essere un’installazione. Ma a quel punto diventerebbe un’altra cosa. Un’installazione vive di una sua tridimensionalità, di una sua superficie ed è collocata in uno spazio. Il fruitore la guarda da lontano, poi si avvicina, ci gira intorno, decide come approcciarsi all’oggetto.
A me invece interessa creare un gap tra l’oggetto esistente e quello immaginato. Lo voglio estrapolare dal tempo e dallo spazio. Deve esistere solo in fotografia, che è quel momento che si è interposto tra l’artefatto e me.

Questi diorami sono per me un espediente per parlare di temi ai quali sono sempre stata legata, temi di impronta sociale; in modo particolare mi affascina il sentimento con cui l’individuo vive nel suo ambiente. Ho iniziato ad affrontare questo argomento occupandomi della mia città, Bari, percorrendo una linea immaginaria dal centro alla periferia della città e ragionando su come il variare dello spazio urbano, delle sue architetture, condizionasse gli atteggiamenti della popolazione.

Teresa Giannico, Bari

Teresa Giannico, Bari

Ho continuato questa ricerca con modalità meno documentaristiche, preferendo concentrarmi sull’atmosfera più intima riferita al singolo individuo, e aggiungendo ai miei interessi il tema della transitorietà e dell’incertezza, aspetti molto comuni e attuali derivanti dalla crisi economica.
Rogoredo è stata la prima serie con la quale ho sentito di poter raggiungere questo obiettivo. Il titolo viene dalla periferia del sud Milano nella quale vivo: un confine della città che è quasi solo capolinea di treni e autobus. Un luogo di transito per eccellenza, quindi, nel quale moltissimi passano, ma nessuno si ferma. Non diversa è la condizione all’interno della casa rappresentata. La serie indica un percorso nel perimetro del mio appartamento, una vecchia abitazione di ferrovieri, poi di liutai e di persone che col tempo vi sono transitate per periodi sempre più brevi. Un crocevia nel quale si sono stratificate tracce di persone presenti così come di altre che non ho mai conosciuto.


In seguito ho continuato a costruire paesaggi, più immaginati e sentimentali, nel trittico di Landscapes in Milan. Ho scelto ancora una volta Milano perché è la città in cui vivo e perché la ritengo il simbolo più efficace per rappresentare la condizione contemporanea italiana, con la sua crisi che ritengo non tanto economica quanto morale, culturale. Nelle velleità di Expo, e in tutta la sua foga, Milano mi appare sempre più un paesaggio solitario, dove tutto è periferia.
Questo lavoro passa attraverso diversi esperimenti, le costruzioni e le fotografie sono fatte a distanza di tempo le une dalle altre. A intervallarsi e a ispirarmi durante queste fasi è stata una lunga ricerca negli archivi storici dei musei di scienze naturali, dove ho trovato molte fotografie di diorami in costruzione. Mi piaceva l’immagine nel suo complesso, non la vedevo come una fotografia documentativa del lavoro in corso, bensì come la storia di un mondo parallelo. E quel modo di descrivere il paesaggio, dentro delle mura, così come la scelta per i visitatori di scoprire la natura attraverso quel mezzo, erano un linguaggio che mi apparteneva moltissimo.


Ora continuo la mia ricerca, di nuovo non lontana dalla città di Milano e dai suoi riflessi. Convivo ogni giorno col mutare del mio studio che si plasma in base alle mie esigenze, alla grandezza delle costruzioni, alla loro catalogazione. Per me il laboratorio è un luogo di estrema importanza, ho costruito personalmente i mobili e le attrezzature (veri), tutti in funzione dei miei oggetti (falsi). Credo che in questo modo acquistino anch’essi un’identità, e che costituiscano un filtro importante per il mio lavoro.

 

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