Ho ricevuto questo testo da Vittore Fossati pochi giorni fa, dopo il suo intervento a Bergamo negli incontri GAMeC sui rapporti tra fotografia e arte. Fossati nell’incontro è stato assolutamente generoso, perché ha incrociato una forte componente analitica, saggistica, con lo svelamento profondo ed emozionante dei propri percorsi mentali mentre realizza le sue fotografie. Non mi so spiegare del tutto come gli sia stato possibile tenere così bene insieme questi due aspetti così diversi, ma credo che questo testo in qualche modo lo possa fare intuire.
Il testo che potete leggere qui sotto è la revisione degli appunti di un discorso da lui tenuto in occasione della giornata di studio Come pensare per immagini? Luigi Ghirri e la fotografia, svoltosi alla British School at Rome il 9 ottobre 2013 – ma è anche vicino, per intensità e contenuti, alla lezione che ha appena tenuto a Bergamo.
Sono particolarmente orgoglioso di proporvelo in questo blog, per varie ragioni: la prima è che è molto raro che un autore ci apra, diciamo così, le porte sui suoi meccanismi più profondi e sui pensieri che intervengono mentre lavora. La seconda è che Vittore Fossati è una figura tanto grande quanto schiva nel panorama della fotografia italiana. Tra me e me lo definisco un minimizzatore: del suo ruolo e del suo lavoro – mentre anche solo questo testo ci dimostra perfettamente il contrario. La terza ragione sta nella rarità della sua presenza nel web, così come della rarità in generale di suoi testi (cosa quest’ultima che lo accumuna purtroppo a molti altri). Ve ne sarebbero altre, di ragioni: ma mi fermo qui e vi lascio a questo eccezionale contributo.
L’otto rovesciato
Appunti per un’idea di infinito nell’opera e nella vita di Luigi e Paola Ghirri
La parola infinito compare molte volte come concetto, titolo, evocazione poetica, a volte anche nel lavoro quotidiano di Luigi e Paola Ghirri.
Un’opera di Ghirri s’intitola Infinito ma poi, ad esempio, avevano scelto il nome di infinito per il loro studio di grafica e fotografia negli anni in cui hanno abitato a Formigine.
Tra l’altro, i simboli della messa a fuoco usati come fregio per il biglietto da visita sono stati riprodotti anche nel libro, che rende loro omaggio: Fin dove può arrivare l’infinito che deve il titolo a quello del testo di Giorgio Messori – scritto del 1992 -, originariamente pubblicato nel primo catalogo realizzato dopo la morte di Ghirri e cioè Vista con camera, curato da Paola e da Ennery Taramelli la quale, peraltro, ha intitolato un suo saggio Mondi infiniti di Luigi Ghirri.
Il mio contributo inizia dunque così e continuerà per una decina di minuti fra ricordi e divagazioni.
L’otto rovesciato
Paola mi aveva raccontato che durante le esequie di Luigi nella chiesetta di Roncocesi lei era seduta in un banco che portava un numero, l’otto, scritto su una targhetta. Durante la cerimonia questa targhetta, alla quale evidentemente già mancava uno dei due chiodini che la fissavano, era ruotata di 90° finendo per indicare così un otto rovesciato, il simbolo dell’infinito.
Paola credeva molto a questi accadimenti, al manifestarsi di queste coincidenze.
Comunque, fatto sta che Paola è mancata il giorno 8 e la sorella, interpretando quello che forse sarebbe stato un suo desiderio, volle che il funerale avvenisse l’11 novembre e quindi l’11/11/2011.
11-11-11. Un numero palindromo che, appunto, può essere letto in un senso o nell’altro. Né capo né coda, né inizio né fine che, proprio come il nastro di Moebius, può essere letto o, per meglio dire percorso all’infinito.
Come si ricorderà, nel luglio 2011 un incendio sviluppatosi nel sottotetto aveva devastato la casa di Roncocesi. Paola si era trasferita in un’altra abitazione e poi, dopo circa quattro mesi, moriva.
Dicembre 2011
Daniele De Lonti, Gianni Leone, io e Beppe Sebaste, temendo una radicale trasformazione (poi per fortuna non è stato così), siamo entrati nella casa di cui eravamo stati tante volte ospiti per raccontare il nostro commosso legame con gli oggetti e le memorie di un luogo, l’ultima casa abitata da Luigi e Paola.
Muratori e carpentieri avevano iniziato il lavoro di ripristino. Mobili, libri, dischi in gran parte ammassati nelle stanze inferiori. Alle pareti umidità e muffa provocata dall’acqua per lo spegnimento dell’incendio. Freddo. Buio. I ponteggi all’esterno impedivano l’apertura degli scuri. Molte foto sono state fatte con l’ausilio di una lampada che ci portavamo dietro da una stanza all’altra, da un piano all’altro.
Ovunque, come si può immaginare, disordine e polvere. Polvere. Una volta, alla radio, ho sentito il filologo Giovanni Semerano che diceva che la parola infinito deriva da quella accadica che significa polvere. Adesso ne ero ancora più convinto.
Inizio a fotografare. Sono nello studio al piano terra. Prendo una piccola scatola rossa, che spunta da una pila di libri. La poso sull’impolverato tavolo color verde penicillina, al quale Paola era solita sedersi per lavorare all’impaginazione dei libri. Disfo il nodo di stoffa nera che la teneva chiusa. Il nastro cadendo sul tavolo forma, con la sua ombra, la figura dell’otto. Paola, che compare nella prima foto della scatola, sembra guardarlo. Faccio questa fotografia tra la sorpresa e il turbamento.
Mi sposto nel corridoio. Sullo scaffale vedo un altro otto. Questa volta si tratta di un numero dipinto su una piastrella di ceramica, quelle dei numeri civici. Accanto trovo una cartolina che, muovendola, e a seconda di come la si tiene inclinata, mostra tre fasi di un’eclissi di sole. La fotografo nelle tre posizioni e più che un’eclissi adesso mi sembra il triste racconto di uno spegnimento.
L’infinito
La parola fa venire subito in mente il canto più noto di Leopardi. In questo canto l’infinito viene detto tramite continue comparazioni tra il vicino e il lontano, tra ciò che ci è prossimo, che appartiene al finito, alla finitudine della condizione umana e ciò che è distante, che sta all’infinito, e che appartiene all’orizzonte dell’incommensurabile.
Dunque, Il questo e il quello:
[…] a questa siepe…
… interminati spazi di là da quella…
E come il vento odo stormire
Tra queste piante
Io quello infinito silenzio
A questa voce vo comparando…
Ora mostro la copertina di un libro di racconti di Antonio Prete (pubblicato nel 2000) il quale, tra l’altro, si è anche molto occupato di Leopardi, scrivendo bellissimi saggi.
Il racconto che apre il volume è dedicato alla figura di Giuseppe da Copertino, un frate vissuto nel ‘600, famoso per i suoi “voli”. Le cronache raccontano che durante l’estasi si sollevasse da terra. E insomma, per farla breve, per le sue virtù e devozione venne ammesso senza esami al sacerdozio.
Ma chissà perché proprio questa foto per questa copertina.
L’avevo chiesto a Paola e mi rispose che era del tutto casuale, si era trattato, come in molti casi, di una scelta redazionale.
Copertina / Copertino (un gioco di parole che sarebbe piaciuto a Ghirri)
Paola, a proposito di Copertino, mi disse che quando, durante un viaggio in Puglia Luigi si imbattè nel nome di questa località e lesse anche l’indicazione di un santuario dedicato a questo san Giuseppe esclamò: «ma allora è vero… allora esiste per davvero» e raccontò a Paola che sua madre, quando Luigi frequentava le elementari, gli aveva messo in un quaderno un’immaginetta di questo santo perché, almeno ancora in quegli anni, era credenza che san Giuseppe da Copertino proteggesse i bambini che non andavano troppo bene a scuola. Paola aveva detto «quelli un po’ asini».
Dunque, il racconto di Prete sulla visionarietà di questo mistico s’intitola Portenti di fra Giuseppe da Copertino ed inizia così:
«Giuseppe Boccaperta lo chiamavano, perché era sempre incantato, sempre con la bocca spalancata per la meraviglia, che cosa vedi? gli chiedevano, che cosa vedi, Giuseppe?…»
Noi invece adesso potremmo chiederci, a proposito di questa fotografia, cosa vedeva Luigi.
La foto mostra un gioco per bambini, un’altalena come tante su una spiaggia della riviera adriatica. È una foto molto semplice, apparentemente forse anche banale. Però Luigi qualcosa aveva intravisto e curando la distanza di ripresa fa in modo che gli anelli che pendono dal braccio sinistro della struttura sfiorino, indichino, la prossimità del finito, la linea che separa la terra dal mare, mentre quelli che scendono dall’altro braccio, tocchino la linea dell’orizzonte che separa il mare dal cielo. Ghirri sostituisce la siepe leopardiana con un’altalena che appunto, ci suggerisce – visivamente – l’altalenanza tra il questo e il quello, tra ciò che sembra poter appartenere al vicino, alla nostra possibilità di conoscenza sensibile e ciò che invece rimarrà sempre lontano – allontanato all’infinito – su un vago orizzonte.
Ancora una fotografia di Ghirri (Trani, 1982)
Peter Handke nel suo libro Nei colori del giorno, dedicato all’esplorazione di uno dei luoghi della pittura di Cézanne, la montagna Sainte-Victoire, racconta che, a un certo punto, scendendo da un sentiero, lancia una mela per aria, la riagguanta e dice di aver fatto questo per legarsi al paesaggio.
La foto mostra un’anfora collocata come decoro sulla balaustra di un tratto del lungomare di Trani. Al centro della foto non c’è l’anfora ma la linea mediana tra l’anfora e l’ombra dei rami di un albero; ombra analoga per forma a quella dell’anfora. Ghirri si lega al paesaggio in questo modo, unisce il questo al quello, adottando inoltre un punto di ripresa che gli permette di far collimare, di sovrapporre la linea obliqua del profilo della nuvola con quella che separa – per il diverso colore – la superficie dell’anfora: è una sorta di trompe-l’oeil che attira lo sguardo verso una lontananza infinita.
Molte foto di Ghirri ci mostrano quello che c’è, quello che si vede più qualcos’altro.
Edward Weston, in una pagina del suo diario annotava: «ho fatto la fotografia di un tronco di una palma: è la fotografia di un tronco d’albero più qualcos’altro. Non so cosa darei perché qualcuno mi dicesse cos’è questo qualcos’altro…».
Novembre 2010
Io e Paola siamo stati a Bari per la presentazione del libro di Gianni Leone e stiamo tornando a Bologna con l’aereo.
Le nuvole sono sotto di noi. Adesso per guardare il cielo, le nuvole, dobbiamo guardare in basso e non in alto. Il punto di vista si è rovesciato.
Mi faccio dare i suoi occhiali, li appoggio al finestrino e faccio una foto.
Gliela mostro nel display e le chiedo: «chissà cosa può unire la parola otto alla parola ottica?»
Paola guarda la foto. Sorride.