Sergio Giusti – Google Immagini come Atlas Mnemosyne algoritmico

Tra le molte cose che Sergio Giusti ha detto durante il suo intervento a Camera con Vista presso la GAMeC di Bergamo, una mi si è fissata in mente, per la sua chiarezza e apparente semplicità: la fotografia indica sempre qualcosa, ma i lavori di molti artisti oggi indicano il codice, che non è la realtà, bensì una sua simulazione (basti pensare a Google Earth). Credo che questa sia un’intuizione preziosa, che forse Giusti vorrà approfondire in futuro, con le capacità analitiche e saggistiche che ha già dimostrato nei suoi testi. Qui di seguito ci offre un esempio di uno dei diversi temi affrontati durante la serata, che è stata anche vivacizzata da domande interessanti – grazie!

Google Immagini – Atlas Mnemosyne

Google Immagini – Atlas Mnemosyne

Non riassumerò le molte cose messe sul piatto per il mio intervento a “Camera con vista”, ne verrebbe un trattato forse intrattabile per i tempi di lettura media del web. Farò quindi solo uno spaccato, una sezione, prendendo un elemento che scelgo quasi a sorte. Un metodo aleatorio che ribadisce come certe idee arrivino apparentemente per distrazione. Proprio così, osservando il layout di un risultato di Google immagini nel suo complesso e non per i risultati specifici che mi dava, ho notato la sua somiglianza con le tavole dell’Atlas Mnemosyne di Aby Warburg. Si tratta solo di una questione formale? Una semplice analogia nel disporre le immagini su di una tavola secondo criteri apparentemente giustapposti? La suggestione, tra l’altro, aumenta cercando su Google immagini con la chiave “Atlas Mnemosyne”: il risultato è una mise en abyme, tavole di Warburg riprodotte a cascata nella tavola di Google.

Sappiamo che Warburg, affiancando immagini di epoche lontane, ma anche di natura completamente diversa, un fregio in bassorilievo e una giocatrice di golf, un affresco e un francobollo, voleva mostrare come certe immagini, in modo simile ai sintomi, si inabissano per poi tornare alla luce in forme trasformate. I capelli serpentiformi della Venere del Botticelli come ricordo-metamorfosi della convulsione dei riti dionisiaci, giusto per citare l’esempio più famoso.

Certamente Google immagini non può essere così raffinato, anzi è ben più rozzo. Ma in qualche modo costituisce una sorta di versione algoritmica dell’Atlas. Il criterio di ricerca più usato è quello per chiavi testuali: metto una parola o una frase sulla barra di ricerca e ottengo dei risultati. Più o meno coerenti, più o meno sorprendenti, più o meno accidentali. Quello che sappiamo è che la parola immessa ha portato verso immagini che possono essere ad essa direttamente o indirettamente legate. Nel caso limite basta che una fotografia, anche senza alcun legame con la chiave di ricerca, sia collocata in una pagina che in altro contesto utilizza quella parola, perché l’immagine venga comunque selezionata.

Tarin Symon & Aaron Swartz, Image Atlas, 2012 (chiave di ricerca: “abate”) www.imageatlas.org

Tarin Symon & Aaron Swartz, Image Atlas, 2012 (chiave di ricerca: “abate”) www.imageatlas.org

Nel web, l’immagine digitale diventa ancora di più un insieme di dati che viene elaborato, modificato, collegato. Ogni luogo della rete dove un’immagine ha stazionato lascia una traccia nel suo codice. Senza contare che oggi le immagini in internet sono anche oggetto di commenti e tag che le connotano e le connettono. È un’immagine-straccio, che si trascina dietro tutta la polvere di dati, anche superflui, anche incoerenti, dei luoghi virtuali che ha visitato o le hanno fatto visitare. Tutti questi dati diventano delle specie di tracce mnestiche tecnologiche quasi nascoste, una sorta di segnale di un inconscio tecnologico di tipo software, dopo quello hardware segnalato da Franco Vaccari nell’epoca della fotografia chimica. Anch’esse quindi immagini-sintomo, ma sintomo soprattutto della loro codificazione, anche sociologica. Per citare qualcuno dei lavori presentati, si può pensare a Image Atlas di Taryn Simon e Aaron Swartz o a Screenshots di Fabrizio Bellomo. Nel primo, la stessa chiave di ricerca viene declinata nelle versioni di varie nazioni di Google immagini, mostrando come i risultati siano connotati diversamente, in base a censure, rilevanza delle notizie, iconografie differenti. Nel secondo, la ricerca secondo due chiavi, “prostitute” e “nigeriane”, dà risultati sorprendentemente simili, rivelando una sorta di pregiudizio razziale informatizzato.

Fabrizio Bellomo, Screenshots, 2012-2015

Fabrizio Bellomo, Screenshots, 2012-2015

Fabrizio Bellomo, Nigeriane, 2012

Fabrizio Bellomo, Nigeriane, 2012

Non bisogna però essere ingenui: parlare di codificazione non significa per forza unirsi al coro di chi considera la fotografia digitale del tutto avulsa dalle logiche della fotografia come segno-traccia preso dalla realtà. Anzi. Proprio la logica simulatoria delle tecnologie virtuali ha bisogno dell’idea di referenza a un reale per poter sviluppare le sue strategie. Come a dire che una normale fotografia, anche analogica, è già un’esperienza, per quanto basica, comunque virtuale, in quanto ci fa fare un’esperienza mediata di qualcosa che è stato ripreso in altro luogo e in un diverso tempo. E poi la preponderanza del codice non è una novità dettata dall’informatica, in fondo è la nostra natura: l’uomo è antropologicamente preso nel linguaggio. Ne ho discusso con Fabrizio Bellomo la sera in cui ha presentato i suoi lavori e lui in seguito mi ha mandato questa citazione di Agamben: “il linguaggio stesso, che è forse il più antico dei dispositivi, in cui migliaia e migliaia di anni fa un primate – probabilmente senza rendersi conto delle conseguenze cui andava incontro – ebbe l’incoscienza di farsi catturare”. Inutile ricordare che linguaggio non significa solo parola.

 

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SNUFF – Nel flusso rigurgitato

Con questo intervento si chiude la trilogia di autointerviste che Matteo Cremonesi ed Enrico Smerilli hanno prodotto per questo blog (grazie!) dopo il loro incontro di Camera con Vista presso la GAMeC di Bergamo. Trovate qui e qui le altre due puntate di questa serie, che mi pare ben rappresenti il loro sfaccettato lavoro.
SNUFF parte da una sorta di gioco tra i due artisti, che pubblicano sul tumblr atrandomclub dei botta e risposta basati su immagini reperite in rete che accostate acquistano nuovo senso. Parrebbe un facile divertissement, di quelli che un po’ tutti noi a volte pratichiamo – ma credo che il fatto che questi loro scambi vadano avanti quotidianamente da anni implichi qualcosa di più, e di diverso. L’enorme sequenza di dittici che si aggiorna continuamente è lo specchio di una relazione amicale che procede per ironie e doppi sensi, ma anche per tragedie e provocazioni, in una specie di infinita gara al rilancio che è un po’ il contrario dell’instaurarsi di abitudini ripetitive e rassicuranti all’interno di una relazione. Allo stesso tempo, l’aspetto così pubblico di questo continuo scambio interno, e il suo utilizzare materiali non autoprodotti, ne dimostrano la sua appartenenza a un ambito che forse solo le generazioni più recenti possono sostenere con tanta leggerezza e competenza. SNUFF ha al suo attivo altri progetti anch’essi basati sull’interazione, magari meno dichiarata, tra i due artisti, che vi invito senz’altro ad andare a conoscere.

SNUFFIntervista a SNUFF, a cura di Matteo Cremonesi ed Enrico Smerilli

A / Chi è SNUFF, di che si tratta?

SNUFF è il nome collettivo con cui Enrico Smerilli e Matteo Cremonesi firmano dal 2011 alcune operazioni e ricerche. Ponendo l’accento sul collasso e commistione dei linguaggi visivi, l’attività del collettivo si sofferma a indagare e sperimentare nuovi percorsi linguistici ed estetici. È un’indagine non-lineare sulle realtà estetiche nate o cresciute in rapporto al web. È un lavorare veloce, che viene dal flusso, e si reinserisce nel flusso “rigurgitato” in cui le immagini circolano in rete.

SNUFF, Atrandomclub | fuji film crystal archive paper_656

SNUFF, Atrandomclub | fuji film crystal archive paper_656

Atrandomclub è il vostro primo progetto assieme, un progetto aperto sul quale continuate a lavorare, di che si tratta, cos’è Atrandomclub?

È molte cose. Principalmente è un modo che abbiamo trovato per continuare a mettere legna da ardere all’interno di un dialogo e un’amicizia. Un dialogo aperto e continuo, giornaliero.
È un modo per digerire il flusso continuo di immagini con cui il web ci intrattiene. Un modo per documentare e trattenere qualcosa del tempo che passa, delle cose che abbiamo guardato.
È un modo per sperimentare associazioni e incontrare linguaggi, estetiche, argomenti a cui probabilmente altrimenti non avremmo dato attenzione.
È un modo per prendere in giro un personaggio politico, appropriarsi di immagini di altri, stravolgere un contenuto, ricordare qualcosa, qualcuno, mettere in relazione temi, organizzare ricerche, stimolare l’attenzione, provocare esperienze formali.
In generale è un progetto dal carattere caotico e irriverente che trova in poche e semplici regole la libertà di divenire all’occorrenza molte cose diverse seguendoci nel nostro percorso.

Come funziona?

Ciascuno di noi sceglie un’immagine da cui è particolarmente attratto o a cui è interessato e la sottopone all’altro che, a sua volta, associa a questa una seconda. Da questo semplice scambio e associazione nascono elaborati in cui le due immagini accostate creano una terza nuova immagine. Gli elaborati sono poi postati con cadenza giornaliera su un blog.

Qual è il processo che porta all’accostamento di immagini?

I motivi per i quali scegliamo un’immagine sono i più diversi; l’associazione di un’immagine a un’altra può avvenire tenendo conto di un contenuto, un carattere formale o più semplicemente inseguendo una “logica della sensazione”. L’immagine che nasce da questa associazione è altro rispetto alle due immagini. Costituisce di fatto uno stimolo a se stante. Se questa operazione ha qualche valore, questo non va rintracciato tanto nelle singole immagini o nella loro riuscita formale, quanto piuttosto nella lettura trasversale dei generi che la pratica nel suo insieme propone

Cosa vi ha spinto verso questo dialogo?

C’è sempre stata una qualche forma di dialogo fra i nostri lavori, anche prima di questo progetto. Ciò che ci ha spinti a iniziare questo lavoro è stata la considerazione che nelle nostre rispettive e distinte pratiche vi erano punti di riflessioni in comune ai quali forse avremmo potuto rispondere meglio assieme. SNUFF è un territorio in cui trovare un punto intermedio fra i nostri sguardi e le nostre ricerche, un territorio in cui dialogare ed esercitarci, che a oggi ci ha dato e continua a darci moltissimo.

SNUFF, American landscape _ Lola, fuji film crystal archive paper

SNUFF, American landscape _ Lola, fuji film crystal archive paper

Oltre ad Atrandomclub SNUFF ha realizzato un altro progetto suddiviso in tre distinti capitoli…

Sì, American Landscape, Latina Landscape e Japanese Landscape è un progetto costituito da tre raccolte di fotografie ottenute da tagli fotografici di immagini pornografiche reperite in rete.
Le immagini raccolgono informazioni sugli ambienti, le forme, gli spazi, e si soffermano a sottolinearne le caratteristiche e le singolarità che questi inevitabilmente trattengono.
Gli ambienti da cui il corpo è sottratto, diventano oggetto di un’osservazione convenzionale, anonima, che tenta di accentuare di volta in volta diversi aspetti degli stessi e, per questi, tentare un’indagine tassonomica di genere dei luoghi in cui il corpo pornografico si racconta e diventa in diverse prospettive culturali.
La fisicità dello spazio, il racconto dell’ambiente, la presenza-assenza di elementi e soggetto vengono visualizzati a partire da ciò che viene trovato; l’attenzione è sconnessa, alterata, costretta dal taglio fotografico ad un continuo processo di omissione del soggetto a riflettersi in nuovi elementi, che nel loro insieme, nel divenire “collezione”, divengono altro “soggetto” a cui porre attenzione e dal quale poter riflettere la possibilità di intuire e rilevare nuove coordinate narrative.

State portando avanti questo progetto da più di sei anni: come ha influenzato il vostro modo di operare?

SNUFF è nato come indagine ed esercizio in parte propedeutico alle nostre rispettive pratiche. Il lavoro continuo, giornaliero, che abbiamo fatto in questi anni ha in una certa misura aiutato entrambi ad apprendere ed esercitare una sorta un disincanto nei confronti dell’immagine e del suo portato estetico, rendendoci, rispetto ai nostri lavori, capaci di una maggiore agilità progettuale.

 

http://snuffedition.tumblr.com/
http://atrandomclub.tumblr.com/
https://vimeo.com/163241194 ——– Atrandomclub

 

 

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Enrico Smerilli – Immagini come uno spazio operativo

Trovate qui di seguito la seconda delle tre interviste, curate dagli artisti stessi, con le quali Matteo Cremonesi ed Enrico Smerilli hanno scelto di presentare il loro lavoro dopo il loro incontro di Camera con Vista presso la GAMeC di Bergamo (trovate qui la prima, qui la terza). Questa volta è il turno di Smerilli, sul cui lavoro personale è intervistato da Cremonesi.
Se nel lavoro di Cremonesi sembra predominare una forte consapevolezza critica e un ferreo controllo del processo, che si traducono nella ricercata pulizia dei risultati, perfino nell’eleganza compositiva delle soluzioni espositive, da parte di Smerilli mi pare che si attivino meccanismi misteriosi e silenziosi, che portano addirittura l’autore a dichiarare, meravigliosamente, che “a volte il caso è coautore dei miei lavori”. A vegliare sul processo produttivo e distributivo di Smerilli – ancora, misteriosamente – ci sono diversi concetti portanti, da due dei quali sono affascinato: l’idea di una ambiguità delle immagini (collegata all’idea apparentemente semplice di “immagine aperta”) e la certezza che i prelievi di materiali dalla rete verranno poi, dopo essere stati elaborati dall’autore e risignificati, rimessi in circolo nella rete stessa – passibili dunque di eventuali altri prelievi, disegnando quasi un sistema circolatorio a flusso continuo.

Enrico Smerilli, Untitled#1 (2014), stampa Giclée su Fine Art Hahnemühle

Enrico Smerilli, Untitled#1 (2014), stampa Giclée su Fine Art Hahnemühle

 

INTERVISTA A ENRICO SMERILLI, di Matteo Cremonesi

MC/ La maggior parte dei tuoi lavori fotografici gioca ambiguamente tra soggetti familiari e alterazioni grafiche, come sul contrasto fra comunicazione ed errore. Da cosa nasce questa pratica, come descriveresti il tuo lavoro?

ES/ Ciò che mi interessa delle immagini è una potenziale ambiguità, che in modo talvolta latente talvolta dichiarato l’immagine stessa possiede.
Si può dire che io lavori su questo, l’ambiguità. Intesa come la differenza linguistica che si può creare fra il mittente e destinatario di una comunicazione visiva. Una differenza che traccia un territorio ambiguo, del possibile, uno spazio in cui il mio lavoro, la mia pratica, desiderano collocarsi.
Cerco di realizzare delle immagini che siano il più possibile ambigue; il modo in cui avvicino un soggetto, un tema, un immaginario, cerca il più possibile di trattenere in attivo una tensione nei confronti della potenziale ambiguità della comunicazione.

MC/ Questa ricerca quindi si traduce in una sfida della percezione visiva e comunicativa, stravolgendo, separando le immagini dalla loro connotazione ordinaria.

ES/ Sì, intendo le immagini come uno spazio operativo, una tavola sulla quale le intenzioni di interferenza si muovono su elementi-soggetti convenzionali, ma che secondo il modo in cui vengono vissuti mutano la propria funzione o disfunzione. Una semplice immagine di un pasticcino su un vassoio si trasforma in una finestra, in un foro aperto sulle trame tecniche del fare immagine, il tutto collegato da scale cromatiche e tensioni formali atte a rendere accattivante quell’instabilità.
Rendere l’immagine di un soggetto riconoscibile e banale, qualcos’altro. Aprire per mezzo di una strategia grafica l’immagine a letture inaspettate, sovrapponendo o alterando alla linearità di una comunicazione standardizzata le istanze di una comunicazione sensibile.

MC/ Che intendi per immagine aperta?

ES/ Un’immagine aperta è un’immagine che permette interpretazioni diverse, in base all’osservatore.

MC/ Vi è un carattere ludico?

ES/ Sì, certamente c’è un aspetto ludico, istintivo, nell’operare – che si presuppone possa avere anche un eventuale spettatore.

MC/ Che ruolo ha il caso all’interno della tua prassi lavorativa?

ES/ Cerco sempre di lasciare le trame del mio lavoro abbastanza larghe perché possa svilupparsi in modo naturale e spontaneo, e ci sia un margine per stravolgimenti e contraddizioni interne, durante il tempo, sempre piuttosto esteso come durata, in cui lo stesso lavoro si evolve.
In alcune serie il caso è qualcosa di più, ad esempio in Atlanti, Mountains(s) o Layers la decisione di lavorare su un processo, una combinazione di fattori o di pratiche, produce che sia il caso a definire l’immagine finale. In alcuni casi quindi è un coautore del lavoro stesso.

MC/ E l’istinto?

ES/ Ho sempre creduto molto nel valore dell’istinto. Un importante grado di istintualità o sensibilità visiva è sempre presente all’inizio, durante e a conclusione del lavoro.

MC/ Molti dei tuoi lavori presentano caratteristiche formali capaci di appropriarsi abilmente e sensibilmente di modalità visive e sapori ricorrenti in immagini di tendenza, immagini che possiamo facilmente trovare sui social network o ancora in territori trasversali a moda e design.

ES/ L’incontenibile e forse persino inconcepibile flusso di informazioni, di impulsi, di merci, moltiplicati esponenzialmente dalla virtualità del web impone oggi al fruitore medio una compresenza di immaginari, estetiche, forme, apparenze dell’immagine a cui sono molto interessato e che intendo come un campionario grammaticale pronto all’uso e alla distorsione.
Credo inoltre che sia più interessante mantenere un dialogo, seppur creativo e alternato, con queste espressioni, piuttosto che escluderne le caratteristiche dal mio processo creativo. È un modo, forse, per interferire con il presente.

Enrico Smerilli, Untitled#7 (2014), stampa Giclée su Fine Art Hahnemühle, dimensioni variabili

Enrico Smerilli, Untitled#7 (2015),
stampa Giclée su Fine Art Hahnemühle, dimensioni variabili

MC/ Quindi la rete, internet…

ES/ Sì. Il web, come meccanismo di distribuzione, input e output, da sempre ha giocato una parte centrale nella mia attività, prima come fruitore e poi come autore.

MC/ Sapresti tracciare un’origine di questo tuo interesse verso le possibilità metodologiche e tecniche di approccio al lavoro visivo?

ES/ La mia ricerca estetica si porta avanti all’interno di un mondo tecnologizzato, digitalizzato e virtualizzato. I lavori che produco sono una reazione al non senso provocato dall’eccesso di tutte queste informazioni. Un tentativo di organizzare una realtà che eccede, di creare dei punti di resistenza o di disfunzione.

MC/ Prima del tuo percorso accademico ti sei diplomato allo IED, quanto credi che quella fase del tuo percorso abbia influito sul rapporto che hai con le immagini?

ES/ È stato un momento importante e significativo per molti aspetti. In primo luogo è stato il primo reale contatto con il mondo dell’arte e della “creatività” in genere. E secondariamente, ma non è meno importante, credo che la mia formazione di grafico mi abbia insegnato a intendere le immagini come soggetto sempre potenzialmente suscettibile di un processo, di una manipolazione. Comprendendo la regia o la progettualità dietro la realizzazione di un’immagine ho in qualche modo desacralizzato il rapporto che intrattenevo con questa, un rapporto viziato da una sorta di timidezza.

MC/ Alcuni dei tuoi lavori sono raccolti in serie fotografiche, tuttavia le immagini appartenenti a queste stesse serie appaiono spesso formalmente molto diverse fra loro, legate solo da qualcosa: come organizzi il tuo lavoro?

ES/ La mia ricerca è un caotico work in progress che prendo molto sul serio. Questo “caos” mi permette di perdere tante cose. Lascio molti lavori aperti, sospesi per tanto tempo che spesso non sono nemmeno sicuro di cosa si tratti. Cosa sia studio, cosa è opera e cosa sia documentazione. La parte più processuale di un lavoro, che si snoda nel tempo in periodi più o meno estesi, di poche settimane oppure anni, a un certo punto diventa lavoro, pratica condivisa. Mentre spesso qualcosa che nasce chiaramente con l’intento di divenire immediatamente opera diventa poi parte di un processo incessante di rielaborazione.

MC/ In alcune tue serie fotografiche come “Here is where we meet“ o “ Layers”, il rapporto con il medium fotografico sembra sempre meno significativo, mentre un ragionamento grafico sembra sostituirlo.

ES/ Apprezzo l’artificio, lo trovo sincero e attuale. Ho una curiosità innata per i segni e l’astrazione delle immagini e dei discorsi, è una capacità acquisita nell’elaborarle e costruirle che credo di dover incoraggiare sempre più.

MC/ Un’ultima domanda: il tuo lavoro sembra trattenere, proprio per mezzo di questi interventi atti ad alterare contenuto e struttura visiva, una tensione quasi pittorica. Ti sei mai confrontato con questo medium o hai dei riferimenti in tal senso?

ES/ Sono sempre stato molto attratto dalla pittura come dal disegno. Ho sempre guardato a queste pratiche in modo quasi magico. Purtroppo non sono dotato in tal senso, ma è un linguaggio che continua a interessarmi e affascinarmi.

 

http://www.enricosmerilli.com
info: enrico.smerilli@gmail.com

 

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Matteo Cremonesi – Una pacifica registrazione

Quando ho chiesto a Matteo Cremonesi e a Enrico Smerilli di mandarmi un loro testo che riassumesse quanto avevano presentato del loro lavoro, sia individuale che in duo, nella bella serata che hanno condotto all’interno degli incontri di Camera con Vista presso la GAMeC di Bergamo, non mi aspettavo che di testi ne mandassero tre, uno più intenso dell’altro.
Cremonesi e Smerilli hanno usato in questi testi l’escamotage di intervistarsi l’un l’altro, producendo così delle liberissime interazioni, specchio di conversazioni tra loro che durano probabilmente da anni. Se in pubblico sono apparsi molto diversi l’uno dall’altro – asciutto e concentrato Smerilli, mentre spesso quasi torrenziale Cremonesi – in questi testi le parti si riequilibrano, facendo anche intuire quanto possano ben funzionare i loro percorsi, a tratti paralleli e in altri casi collettivi. Credo che la forza del loro lavoro ne esca con chiarezza e sincerità – che è quello che ci auguriamo sempre dagli artisti.
Qui di seguito la prima intervista, qui la seconda e qui la terza.

 

Matteo Cremonesi

Matteo Cremonesi, SCULPTURE_WASHER_05, 2013_2014.
Technique: print on photo paper, aluminum frame. Size: Variables. Courtesy: Nowhere Gallery / Matteo Cremonesi

 

INTERVISTA A MATTEO CREMONESI, di Enrico Smerilli

ES / Il Soggetto/oggetto del tuo lavoro sembra essere quotidiano, qualcosa di normalmente trascurato, di insignificante e comune.

MC / Credo il mio lavoro possa raccontarsi come una pacifica registrazione di ciò che è costantemente presente, vicino, quotidiano, apertamente apparentemente irrilevante. Nel mio lavoro c’è molto poco da vedere, non ci sono nuove immagini ne azioni, ma solo attenzione a ciò che vediamo costantemente senza guardare.

ES / Eppure questi oggetti che fotografi sono legati fra loro da delle caratteristiche. Con quale criterio scegli un soggetto piuttosto che un altro?

MC / Ciò che mi spinge a scegliere di lavorare su un oggetto è la sua capacità di incarnare un carattere “normalizzante”, di essere cioè, contemporaneamente alla sua funzione, un soggetto/oggetto di genere .

ES / Mi spieghi che intendi con “oggetto di genere”?

MC / Intendo categorie di oggetti che hanno in comune proprietà formali essenziali e differiscono per caratteristiche non essenziali. Oggetti il cui disegno o forma prima ancora di assolvere a una funzione precisa presentano nel loro progetto delle caratteristiche capaci di metterli in relazione ad un progetto produttivo-semiotico atto a produrre un disciplinamento delle esperienze.

ES / Dalle tue immagini emerge uno sguardo che potremmo definire “contemplativo”.

MC / Abitando lo spazio l’oggetto crea un’architettura, si dispone fra altri elementi, li cambia o ridescrive, formalizza lungo la sua superficie e con il suo peso una sorta di tensione, crea una sorta di tono. Descrive un suo esserci, inizia un suo “stare”.
Rapportarsi all’oggetto richiede l’organizzazione di una respirazione, di uno sguardo, un modo per muoversi attorno a questo, farne esperienza, trarne un ascolto… fino alla sua registrazione. Occorre l’invenzione di un’attenzione particolare anche nell’operare.

ES / Il tuo lavoro mi fa pensare al fatto che ogni oggetto e corpo può essere letto come pura superficie, statica, priva di movimento.

MC / Quando ero piccolo, d’estate in montagna, passavo interi pomeriggi a scorrere il paesaggio attraverso il binocolo di mio padre. L’ottica del binocolo appiattiva i diversi piani rendendo la realtà un’unica superficie piatta, porzionata, in qualche modo capace di escludere l’idea di movimento. In fondo credo di non aver mai voluto smettere di guardare da quel binocolo.

ES / Parlando di paesaggio, precedentemente a questo ciclo di lavori ti sei occupato a lungo di fotografia paesaggistica, quanto ha influito quest’esperienza nel tuo lavoro?

MC / Moltissimo, lavorare sul paesaggio impone un tipo di ascolto degli spazi che si desiderano registrare non dissimile da una respirazione. L’immersione in un ambiente naturale, l’osservazione e il confronto con questo ambiente mi ha messo nella condizione di cercare delle strategie visive che rendessero quell’esperienza in qualche modo avvicinabile.
Credo le fotografie di paesaggio non riguardino solo la natura, ma attraverso azioni quali la ripetizione, la differenziazione, la composizione, raccontino la nostra presenza di fronte ad essa. Lavorando sul paesaggio ho imparato a portare la ma attenzione sui particolari, ripetendoli, impaginandoli, nascondendoli. Questo era un modo per poter trattare un apparenza altrimenti troppo vasta, troppo travolgente, una ricerca di razionalizzazione dell’impressione… Una strategia attraverso la quale tentare di diminuire quella distanza che la superficie delle cose mantiene sempre con l’osservatore.
In parte, o interamente, l’eco di questa esperienza si può intuire nelle disposizioni presentate in tutti i miei lavori successivi.

Matteo Cremonesi

Matteo Cremonesi, SCULPTURE_WASHER_04, 2013_2014.
Technique: print on photo paper, aluminum frame. Size: Variables. Courtesy: Nowhere Gallery / Matteo Cremonesi

 

ES / Con le tue serie si assiste all’esibizione di un circuito di sforzo che porta spesso all’esaurimento dell’impressione del soggetto, lo sguardo ripetutamente concentrato sulla superficie crea una sorta di sospensione, di pausa.

MC / Mi interessa tentare di provocare una sorta di esaurimento o noia dello sguardo. Questa continua, ripetuta, richiesta di attenzione su qualcosa di molto semplice e conosciuto credo possa, similmente a un perpetuo gesticolare tra le mani di un intenzione rimandata, realizzare nell’osservatore una sorta di silenzio o pausa in cui intuire la capitolazione di ogni evento.

ES / Nel tuo lavoro sembra non esserci narrazione, eppure la presenza del tempo d’osservazione appare dominante. Un tempo che si prolunga e si dilata immagine dopo immagine lungo il corso della superficie: un durare o un trascorrere, che penetra negli intervalli o sospensioni che crei per mezzo dell’impaginazione.
Puoi parlarmi della noia nella tua pratica e del su suo legame con il concetto paradossale di osservazione ?

MC / L’esperienza della noia è importante nel mio lavoro. La noiosità di cui parlo è qualcosa di semplice di cui ognuno ha fatto esperienza nella vita quotidiana. Una qualsiasi attività che diventa noiosa tanto da rallentare la percezione del tempo che ci sembra non passare mai.
Le immagini, le forme, gli argomenti, le sensazioni si ripetono assomigliandosi sempre più fino a perdere contenuto e senso. A partire da questa capitolazione di ogni rapporto narrativo, da questa delusione – esclusione di ogni evento, inizia un processo dello sguardo che trova nella semplice constatazione e registrazione di ciò che c’è il suo fulcro e in quest’impossibilità di parola, di racconto, una forma vertiginosa di respirazione.

ES / Non ci viene mai, (o quasi mai), garantita la soddisfazione visiva di vedere il soggetto nella sua interezza, non ci sono riprese esplicite, e tuttavia ogni difetto, imperfezione, riflesso o traccia sono registrati con imparziale attenzione. In questo paradosso di rivelare al tempo stesso tutto e nulla c’è qualcosa di forzato, un senso di oscillazione tra l’erotico e il clinico enfatizzato dalla ripetizione ossessiva delle diverse parti.

MC / Mi piace l’esperienza (o perlomeno l’idea) d’isolamento radicata nell’atto di “scegliere”. La distanza dal resto del mondo che s’impone scegliendo qualcosa e omettendo visivamente il resto rende l’incontro con ciò che si è scelto quasi segreto. Un’immagine o frammento d’immagine sottratto al rumore dell’ambiente.

ES / Ti sei diplomato nel Dipartimento Multimediale dell’Accademia di Belle Arti di Brera cui hai fatto seguire nella stessa accademia un biennio specialistico in fotografia, credi questo percorso abbia avuto un’importanza di qualche tipo per il tuo lavoro?

MC / L’esperienza accademica è stata indubbiamente molto importante, in particolar modo lo è stato l’incontro con alcuni artisti e docenti come Paolo Rosa, Tullio Brunone, Alberto Garutti, Mauro Folci, Alessandra Spranzi, Luca Panaro, Riccardo Notte, Antonio Caronia e Franco Berardi, le cui lezioni hanno profondamente segnato il mio percorso umano e artistico arricchendolo con una consapevolezza inattesa.

ES / Sembri capace di avvalersi di riferimenti culturali importanti, una lettura del presente per mezzo degli oggetti che chiama in causa temi e discipline apparentemente molto lontani dal lavoro fotografico, cosa succede allo spettatore che non conosce tutti i riferimenti chiamati in causa dal tuo lavoro?

MC / Niente, non succede nulla, credo le immagini abbiano per mezzo di un loro statuto interno la capacità di divenire qualcosa di diverso di fronte a ogni spettatore. Intendo i miei lavori come presenze capaci di intrattenere diversi gradi di lettura.

ES / Mi viene in mente un piccolo romanzo che mi hai prestato qualche tempo fa, Anulare di Yoko Ogawa, che esplora con una scrittura sobria e precisa il rapporto tra gli esseri umani e gli oggetti quotidiani.

MC / È un libro che mi ha colpito molto, al quale ripenso spesso.

 

http://matteocremonesi.org/
info: matteo.cremonesi@yahoo.it

 

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Luca Panaro – Un’apparizione di superfici

La serata di apertura del nuovo ciclo di incontri Camera con Vista, che anche quest’anno ho organizzato in collaborazione con la GAMeC di Bergamo quale docente presso l’Accademia Carrara di Belle Arti di Bergamo, è stato tenuta da Luca Panaro, che con il suo consueto piglio brillante e un po’ polemico ha esposto le sue idee sulle punte più recenti della ricerca fotografica, italiana ed internazionale.

Prima di dargli la parola, mi sono permesso di avvisare il pubblico (e lo faccio anche qui) che probabilmente durante questi incontri ci si sarebbe anche innervositi, perché per molti aspetti i lavori e gli artisti presentati ci avrebbero messo a disagio, mettendo in continua discussione le certezze che crediamo di avere sulla fotografia. Credo sinceramente che il nuovo secolo stia offrendo novità e difficoltà interpretative del tutto nuove, a volte scardinando – dal di dentro, ma anche accogliendo imprevisti apporti esterni – la tradizionale idea che abbiamo di fotografia. Tutto questo ciclo di incontri si è basato su questa difficoltà, sulla messa in tensione di verità che pensavamo consolidate. Devo dire che il pubblico ha reagito bene a questa prima occasione, sia seguendo con attenzione precisa le quasi due ore filate dell’intervento/lezione di Luca Panaro, sia rivolgendogli alla fine numerose domande intriganti.

Luca Panaro ha scelto di inviarmi, per questo blog, solo un breve abstract delle approfondite riflessioni del suo intervento, scelta dovuta al fatto che in questo periodo sta scrivendo intensamente proprio di questi temi – scritture delle quali speriamo di vedere presto pubblicati gli esiti. Grazie Luca!

 

CameraVistaPANARO_017A

 

Negli ultimi anni la fotografia pare avere trovato la sua vera vocazione, ormai libera dalle sovrastrutture culturali impostegli dagli stessi fotografi. A favorire questo rinnovato status del mezzo fotografico non è soltanto il digitale, con le sue caratteristiche, ma i dispositivi che lo veicolano e i comportamenti che favoriscono. Gli Smartphones in primis che mutano il nostro modo di fotografare, con riprese sempre più da vicino, come se il mezzo fosse un’estensione del nostro braccio. Le fotocamere dei telefoni, come scanner incorporati negli arti di ognuno di noi, sono un’arma sempre carica, estraibile al bisogno, capace di registrare in modo ravvicinato ciò che ci circonda.

La forma mentis sembra quindi essere quella dello scanner, dal fuoco fisso e ravvicinato, che prende il posto della più tradizionale visione prospettica dell’orizzonte. Questa pare soppiantata da una visione “da tavolo”, capace di restituire immagini più vicine al gusto di uno studio grafico che alla composizione pittorica. La fotografia scopre la bidimensionalità che da sempre la caratterizza, per troppo tempo messa a tacere dalla ricerca della terza dimensione. Il mondo in cui viviamo è fatto di dati che si leggono sugli schermi dei nostri dispositivi, visori piatti che originano fotografie piatte, a-prospettiche.

Tra gli interpreti di questo nuovo approccio alla costruzione dell’immagine, Taisuke Koyama (Tokyo, 1978) e Maxime Guyon (Lyon, 1989). Ma anche Enrico Smerilli (Vercelli, 1978) e Matteo Cremonesi (Milano, 1986), artisti italiani che ho segnalato in questa circostanza come interpreti di questa nuova iconografia che avanza.

 

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