Fabrizio Bellomo ha già presentato tempo fa in questo blog diversi suoi lavori, e ha dunque preferito stavolta, dopo la sua presentazione agli incontri GAMeC, dare un contributo pensato a partire da alcune riflessioni che Francesco Zanot aveva voluto lasciare l’anno scorso dopo il suo intervento a Camera con Vista. Mi pare sia sempre interessante vedere con quanta scioltezza gli autori più giovani – ma già ben maturi – riescano ad affrontare questioni critiche anche piuttosto impervie. Bellomo ha il gusto della presentazione frammentaria e apparentemente quasi occasionale, ma ho sempre sentito nei suoi scritti uno spessore che è piuttosto raro incontrare – dunque sono felice di ospitare qui questi suoi brani.
Nel testo che Francesco Zanot ha scritto per il tuo blog, in relazione al suo intervento dell’anno scorso per la prima serie di incontri di Camera con Vista, porta un paio di argomenti che mi hanno incuriosito e che mi interessano. Credo che per il tuo blog, e per la serie di incontri della Gamec di Bergamo, sia interessante provare a stratificare gli interventi, i nostri con quelli passati.
In primo luogo Francesco parla di seconda e terza chance concessa alle fotografie, in relazione a operazioni artistiche di riconsiderazione e riposizionamento di materiali fotografici d’archivio (canonico o meno). Lavori come quello di Linda Fregni Nagler, dell’Atlas di Richter o di Aby Warburg prima ancora.
Per quanto cosa significhi la seconda chance sia – appunto – ormai abbastanza chiaro, operazioni sulla terza chance sono meno frequenti, almeno per ora, anche perché sarebbero più ridondanti, ponendoci forse davanti all’inutilità della lista.
Per una (probabile) mostra che stiamo preparando insieme – come autori – io e Adriano Altamira, più volte ho accostato alcuni miei lavori sul materiale d’archivio recuperato sul web ad alcuni suoi lavori sulla genealogia della posa.
Entrambi i lavori utilizzano materiale fotografico (o pittorico e scultoreo) altrui per tracciare una genealogia/stratificazione della posa nella rappresentazione, e premetto che quando ho realizzato quei lavori (2009) non conoscevo il lavoro di Adriano.
Dall’accostamento di queste “tavole” di autori differenti, emerge concettualmente poco di nuovo nell’ultimo lavoro (ovvero il mio), – oltre a un utilizzo di collage del web – solo un passaggio di tempo in più (Paris Hilton), dovuto alla differenza di età fra me e Adriano (peraltro la Hilton ha più o meno la mia età). Una continuazione di quella stratificazione già tracciata da Adriano, per una generazione in più insomma.
Di lavori come questo, sulle pose e su come queste si tramandino nel tempo, ci sono diversi altri esempi che mi vengono in mente: Scopophilia di Nan Goldin o alcuni lavori di Sanja Ivekovic.
La tendenza a rimettere in “ordine” questo magma – come lo chiama Francesco – creerà un nuovo magma di cartelle “ordinate”, un magma di liste? Non ho ancora letto vertigine della lista di Eco, Sergio Giusti mi ha consigliato di leggerlo poche settimane fa mentre facevamo una conversazione su queste tematiche.
Continuiamo a fare liste e a mettere in ordine e mentre mettiamo in ordine creiamo nuove masse, nuovi accumuli, questa volta però accumuli di cataloghi…
Moholy-Nagy: “Non colui che ignora l’alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia, sarà l’analfabeta del futuro”.
Forse oggi la situazione è un po’ cambiata rispetto a quando parlava Moholy-Nagy, oggi credo che l’analfabeta del futuro sarà colui che non saprà leggere le liste (di immagini o altro).
Ne consegue che, se così fosse, ci staremmo per davvero trasformando in delle macchine, agiremo in modo sempre più simile a quello dei PC e del calcolo numerico in genere?
Warhol: “Penso che tutti dovrebbero essere macchine”.
La fotografia ha di certo, in tempi passati, cambiato il nostro rapporto antropologico con la memoria, gli archivi anche; il web che comprende entrambe le cose lo ha letteralmente stravolto e ne ha enfatizzato i cambiamenti. La nostra memoria oggi si serve dell’infinito archivio di immagini e di dati presente in rete come un prolungamento/una protesi delle sue capacità mnemoniche.
Liste di liste, e andando avanti quante altre mega-meta-liste creeremo?
Nietzsche: “Il pericolo infatti è quello di cadere nell’eccesso di storia, perché troppa conoscenza uccide l’azione”.
I nuovi artisti saranno degli hacker intenti nella cancellazione di dati?
Un’altra parte del discorso di Francesco che mi ha colpito e che trovo molto lucida è questa:
“In secondo luogo bisogna considerare la capacità di penetrazione della fotografia all’interno di altri linguaggi e dispositivi.(…). La fotografia influenza il cinema, la pittura, la scultura, l’architettura… Sempre più. In modo subdolo. Come un virus. Ma anche in modo molto naturale”.
A riguardo, voglio citare una bellissima mostra, realizzata nel 2014 presso l’Akademie Der Künste di Berlino dal titolo Lens-Based Sculpture, una retrospettiva saggistica su come la fotografia abbia nel tempo influenzato la scultura: dalle commistioni fra cronofotografia e sculture futuriste, a mix più contemporanei, come il turista con la macchina fotografia al collo – di Duane Hanson – che diventa esso stesso scultura.
Come autore, mi ritrovo a riconoscere come assolutamente corretta l’affermazione di Francesco: ultimamente con il mio amico artista (e socio in alcuni progetti) Nico Angiuli ci siamo soffermati a ragionare su quanto i momenti in cui vengono distrutti simboli di qualche potere – ad esempio pensiamo alla statua di Saddam Hussein – contengano nel proprio essere una forza iconografica monumentale. Come se il monumento, nel momento in cui viene abbattuto ritornasse immediatamente monumento perché fotografato nell’istante preciso in cui sta per crollare ma in cui non è ancora crollato, un simbolo fortissimo reso grazie alla fotografia. In particolare in questo caso ci interessava, appunto, ragionare sul rendere scultura questo momento fotografico.
A proposito di momento distruttivo di un qualcosa reso iconografico in fotografia e di come questo influenzi le arti, mi viene in mente questo lavoro architettonico del gruppo di architetti americani Site; è un supermercato americano realizzato in Texas, che credo utile al discorso.
Un esempio invece di come la fotografia influenzi palesemente il cinema è dato dal film Im Keller di Ulrich Seidl del 2014, una narrazione metaforica sul “cosa succede nelle cantine del popolo austriaco”, realizzata secondo una rigidissima modalità di registro linguistico, che pare un registro palesemente più fotografico che cinematografico. Basta guardare il trailer per rendersene conto, e ricordo anche di aver trovato nel bookshop del Fotomuseum di Winterthur un libro “fotografico” tratto interamente dagli still video di questo film.