Elio Grazioli – Fotografi o artisti che usano la fotografia?

Una breve premessa: lo scorso giovedì 9 aprile sono iniziati gli incontri sul tema dei rapporti tra fotografia e arte che ho contribuito ad organizzare presso la GAMeC di Bergamo, di cui avevo accennato qui.
Il primo incontro, molto denso, è stato tenuto da Elio Grazioli. Alla fine della serata gli ho chiesto se potevo pubblicare qui sul blog alcune sue frasi chiave prese dagli appunti che avevo preso durante il suo intervento. Lui è stato molto disponibile e così il giorno dopo gli ho inviato alcuni brevi frammenti che mi pareva potessero rendere conto di quanto aveva detto, perché li controllasse. Ecco, con bella generosità Elio Grazioli mi ha rinviato il testo che trovate qui di seguito, che è ben più di un resoconto essenziale e che allo stesso tempo ha la freschezza di una sua personale trascrizione. Sono molto felice di pubblicarlo su questo blog.

 

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Quale è fotografia? Quale è arte? Che cos’è la fotografia?
[foto di Bernard Plossu, Thomas Ruff, Wolfgang Tillmans, Jeff Wall, Joachim Schmid]

Premessa: siamo nell’epoca postmediale, che cosa significa?
Ricostruiamo a grandi linee i termini del dibattito recente su tali questioni.
Si può intendere l’epoca postmediale come la fine della specificità dei media su cui era basato il Modernismo, come viene perlopiù presentata (soprattutto in ambito americano), e dunque utilizzo di qualsiasi medium con libertà a fini peculiari per ogni opera e ogni contenuto. La fotografia-fotografia verrebbe così consegnata al passato, ai tempi della specificità, e l’“uso della fotografia” ne sarebbe il superamento.
Ma è l’unico modo di vedere la questione?
Da un certo punto di vista più che la soluzione questa sembra il problema. Infatti se usi uno strumento, lo hai scelto per le sue caratteristiche e dunque sei ancora soggetto, almeno in parte, alle sue regole – quindi dipende che cosa si intende per “specificità”. D’altro canto occorre anche intendersi su che cosa si intende per “uso”, ovvero, detto più teoricamente, su che cosa sia un medium, come si usa dire oggi. (Credo che su questo punto sia un’utile lettura l’ultimo libro di Rosalind Krauss, La tazza blu.)
C’è poi un altro aspetto del problema che è invece evidenziato da termini come “obsolescenza” e “anacronismo”. Sono stati ripresi da più parti negli ultimi decenni – per dare dei riferimenti direi ancora la Krauss ma soprattutto Georges Didi-Huberman e Giorgio Agamben – a partire da riletture di Aby Warburg e Walter Benjamin.
Per l’obsolescenza dice quest’ultimo, in particolare, che i fenomeni tecnologici quando diventano obsoleti hanno una sorta di canto del cigno, per cui il fenomeno obsolescente anticipa e scavalca il fenomeno che l’ha superato. Il suo esempio sono i panorami, così diffusi nei primi decenni dell’Ottocento, sostituiti dalla fotografia, che invece prefigurano il cinema, che ha a sua volta scalzato la fotografia.
Per l’anacronismo il riferimento che ci interessa, sempre benjaminiano, sono l’“immagine dialettica” e il “balzo della tigre”, ovvero due grovigli temporali che mostrano appunto come il tempo non vada visto come lineare, continuo, ma punteggiato di momenti in cui i tempi subiscono contrazioni, condensazioni e anche rovesciamenti. Si faccia riferimento anche al “caso oggettivo” di André Breton, all’“après-coup” di Jacques Lacan e altri.
Così possiamo pensare alla contemporaneità come a un’epoca in cui coesistono e si intrecciano temporalità e opzioni diverse, che si rispondono tra loro, ma soprattutto che la fotografia-fotografia può avere degli argomenti, magari “nuovi” – non in senso assoluto ma di rinnovato –, che la rendono altrettanto interessante e non “sorpassata” dall’arte-che-usa-la-fotografia.
D’altro canto il problema centrale spesso diventa questo: è attuale ciò che rispecchia il momento o ciò che vi risponde?

Tento dunque di enunciare il diverso contesto in cui si può situare la fotografia oggi in altro modo e perciò della ragioni per guardarla con interesse rinnovato.
Il primo punto corrisponde al dibattito di questi ultimi decenni intorno al “visuale”, la “cultura visuale” e quella che è stata chiamata “svolta iconica” (vedi la bella sintesi che ne hanno fatto Andrea Pinotti e Antonio Somaini nel libro Teorie dell’immagine). In sostanza la questione è riassumibile così: dopo decenni di “svolta linguistica”, dove era la dimensione verbale, che è logica, deduttiva, lineare, sintattica, si evidenzia il fatto che l’immagine segue altre vie, non lineari, analogiche, fatte per rimandi, evocazioni, spostamenti e altro, in una parola – mediata dal cinema ma rilanciata in altra modalità – lavora come e attraverso il “montaggio” (vedi anche qui Georges Didi-Huberman).
Il secondo punto risponde alle problematiche che fanno riferimento allo sguardo. Intorno ad esso coagulano in realtà diverse questioni, sia quella lacaniana che potremmo sintetizzare con la formula “anche le immagini guardano noi, mentre noi le guardiamo”, ovvero che esiste uno sguardo che ci viene dalle immagini stesse e che dunque complica il nostro rapporto di puri osservatori; sia quella apparentemente più semplice ma così prettamente fotografica, che attraverso l’immagine noi vediamo in mondo diverso – qui si può fare riferimento all’“inconscio ottico”, così come alla differenza tra guardare e vedere, nonché a tutte le questioni che vanno dal documento alla memoria all’archivio.
Resta come terzo punto il problema del tempo: lo si è già detto a proposito dell’“immagine dialettica”: il tempo fotografico è un tempo speciale, l’“istante” è un groviglio in cui passato, presente e futuro non tanto collassano ma addirittura rompono la loro continuità cronologica e si rovesciano. Il riferimento a quel tempo speciale che si chiama “futuro anteriore” – vedi La camera chiara di Roland Barthes – e all’“après-coup” che abbiamo già nominato: è da dopo che ricostruisco e comprendo il prima, è dall’immagine che “vedo” la realtà.

Potremmo già fermarci qui ma vogliamo aggiungere altri spunti solo apparentemente meno essenziali, sicuramente meno discussi nel dibattito teorico ma che per noi si intrecciano ad esso indissolubilmente.
Uno è quello della “sensibilità”: noi abbiamo l’impressione che la fotografia insegni anche una ricerca di un dosaggio equilibrato delle componenti dell’atto creativo (non enfasi, non concetto, non formalismo…).
Un altro è quello di una casualità peculiare della fotografia proprio perché cattura tutto ciò che sta davanti alla macchina fotografica, senza selezione – per riprendere, rovesciandolo, la famosa obiezione di Baudelaire per cui secondo lui la fotografia non sarebbe mai diventata un’arte perché non seleziona ciò che si limita a registrare. Non vi è qui, invece che un limite, un possibile nucleo ulteriore? (per questo rimando a Jean-Christophe Bailly)
Ultima questione è quella dello “scatto”: la fotografia rilancia in modo rinnovato l’idea dell’“opera”, dell’immagine come qualcosa di fissato, se non di fisso, che condensa, contiene, “comprende”, nei due sensi della parola, il processo creativo.

Elio Grazioli

 

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Un immaginario già presente

Da: Luca Andreoni <luca@lucandreoni.com>
Data: 29 dicembre 2014 12.07.16 GMT+01.00
A: Andrea Botto <info@andreabotto.it>
Oggetto: 19.06_26.08.1945

Caro Andrea,
il tuo libro mi è arrivato, e aspettavo queste feste per scriverti qualcosa, perché mi ha colpito con sentimenti contrastanti, dunque ne approfitto adesso per dirti qualcosa.
Da un lato ammiro lo sforzo impressionante di raccolta e sistemazione, fatta con grande gusto visivo e fascinazione pura per l’immagine. Sono stato affascinato dal continuo mescolarsi di pubblico e intimo, che manda in tilt le abitudini visive che abbiamo, fino quasi a produrre una specie di ansia – e questa di certo è una forza positiva per questo tuo libro.
E potrei andare avanti ancora negli apprezzamenti (non ultimo il riconoscimento per il lavoro mostruoso che hai fatto nella riproduzione iperrealistica dei documenti). Però penso/spero ti interessi anche qualche critica, che dunque riassumo così:
dove sono le tue fotografie?
Io qui posso tra le righe riconoscere bene la “zampa” del Botto fotografo che stimo e apprezzo sempre… la riconosco nelle scelte, nella cura, nel gusto…
Ma francamente penso che questo lavoro sarebbe stato per me (ripeto: per me, magari solo per me!) ancora più ricco e splendido se tu avessi fatto davvero quel viaggio e avessi fatto le fotografie che sai fare così bene.
Ecco, quello che sento è il silenzio della tua voce più diretta, più sul terreno: quella delle tue fotografie.

Io non so quali siano le ragioni che ti hanno portato a questa scelta, che rispetto ma che mi pare omologarsi un po’ a un trend che mi pare tanto attuale quanto a rischio di usurarsi rapidamente – e che mi pare oltretutto caratteristica delle generazioni più giovani, giovanissime, alle quali (purtroppo!) io di certo non appartengo più ma dalle quali, permettimi, penso che anche tu forse dovresti ormai slegarti (non tanto per ragioni anagrafiche quanto per esperienza e qualità della tua storia). Io vedo soprattutto i pericoli di queste tendenze, e continuo decisamente a sostenere che qualcuno di noi deve pur continuare a provare a produrre immagini, a scattare fotografie senza cavalcare troppo quella che sembra una crisi. Come sai non condivido nel modo più netto le pratiche appropriative tanto diffuse oggi, e forse anche per questo ho accolto il tuo libro con i sentimenti contrastanti di cui ti ho detto. E sapendo benissimo quanto tu sia impegnato proprio sul fronte della produzione, perché di lavori fotografici ne fai molti, e potenti, questa differenza mi ha colpito ancora di più, credo.

Mi fermo qui: ne parleremo meglio, magari quando ci si vede; le parole scritte spesso sono fonte di fraintendimenti e spero di non rischiare che tu ti offenda o ti infastidisca, non è assolutamente mia intenzione, e ti rinnovo la mia stima per la tua figura, che sto vedendo da tempo crescere e rinforzarsi.
Un caro saluto e un abbraccio, ciao!

Luca


Da: Andrea Botto <info@andreabotto.it>
Data: 29 dicembre 2014 19.25.02 GMT+01.00
A: Luca Andreoni <luca@lucandreoni.com>
Oggetto: Re: 19.06_26.08.1945

caro Luca,

grazie per il tuo messaggio e per le tue parole.

sono molto felice anche per la critica, che mi sembra come sempre puntuale e ragionevole.
apprezzo molto la sincerità, soprattutto delle persone e dei colleghi di cui ho stima.

capisco le tue osservazioni e non ti nascondo che sono stato molto combattuto anch’io nella costruzione di questo progetto,
se fosse necessario o no, per me, come persona e come autore, compiere davvero quel viaggio, magari a ritroso, accettando la sfida e il rischio di tornare a casa
anche senza immagini (perché no?).

alla fine ho scelto di non spostarmi fisicamente e che mi interessava lavorare su un immaginario già presente (in questo caso legato alla guerra e al conflitto), che tutti abbiamo dentro e che la fotografia sa così potentemente attivare, funzionando come un interruttore.

se proprio devo trovare un punto a sfavore, potrebbe essere il tempo intercorso tra produzione e pubblicazione.
il progetto è dell’estate del 2010 ed è nato da subito come libro d’artista.
purtroppo ci sono voluti quattro anni per vederlo pubblicato (nonostante il premio al FotoBookFestival Dummy Award nel 2012) e sapevo benissimo che questo avrebbe fatto perdere al lavoro un po’ della sua attualità, facendolo cadere in quello che ora consideriamo “tendenza”, ma che allora non lo era ancora, almeno non in modo così marcato.
non solo sul fronte “found pictures”, ma anche per quel che riguarda la costruzione del libro.

al di là di questo, non mi sento di condividere il tuo pessimismo sulle pratiche “riappropriative” in generale, che certo non rappresentano una novità in sé (molti gli esempi da Walker Evans a Richard Prince), ma che assumono a mio avviso un significato del tutto diverso in un momento in cui l’immagine perde la sua fisicità su carta e viene resa disponibile in rete in quantità mai immaginabili solo dieci anni fa.
certo anch’io sono critico sull’utilizzo massivo e ormai “modaiolo” di questi sistemi, oltre ogni ovvia ripetizione, come d’altronde non sono nemmeno convinto che l’unica via d’uscita sia quella estetico/contemplativa/documentaria, ma credo che si debba distinguere tra l’analisi di un comportamento sociale che investe la fotografia e la qualità dei singoli progetti, in cui ogni scelta operata trova un certo grado di efficacia, soprattutto se parliamo dell’oggetto libro.
non si tratta quindi di cavalcare la crisi, ma di usarla per interrogarci su ciò che facciamo e per immaginare prospettive future, anche assumendo il rischio dell’errore.

la tua stessa critica mi è stata mossa anche da altri colleghi, che come te vedono tutto ciò come una pericolosa deriva.
credo che le nostre posizioni su questo tema rappresentino due fronti ben presenti nella fotografia contemporanea, ognuno legato in qualche modo ad una propria idea di ciò che la Fotografia sia stata o potrà essere, ognuno con un proprio grado di conservatorismo e progressismo allo stesso tempo, quindi alla fine due facce della stessa medaglia non alternative.

continuo ad essere convinto della necessità di produrre le mie immagini, ma anche di usare il mezzo che si ritiene migliore per tradurre l’idea in progetto.
non è la prima volta che uso nei miei lavori fonti non prodotte direttamente da me, ma probabilmente questo libro mi ha dato la possibilità di sentirmi libero,
di capire finalmente che il mio interesse e la mia ricerca sono rivolti non tanto al soggetto che sto guardando o fotografando, ma piuttosto alla Fotografia, al linguaggio che sto usando.
credo che da questa presa di coscienza tutto il mio lavoro futuro non potrà che uscirne rafforzato.

ma avremo modo di parlarne anche dal vivo, prima o poi, sperando di poter sempre ricambiare la tua stima e la tua onestà intellettuale, di cui ancora ti ringrazio.

un forte abbraccio e a presto,
Andrea.

 

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