Caro Luca, Caro Luca: Generazione critica

Pochi giorni fa ho avuto via mail un fulmineo scambio di vedute con Luca Panaro che condivido qui oggi. Mi pare interessante non solo per i temi che affronta, ma anche perché dimostra che – per fortuna! – a volte i confronti intellettuali non sono un pranzo di gala, ma vanno chiaro e dritto al punto delle questioni che ci interessano. Sono felice che Luca abbia raccolto e rilanciato in modo così intenso le mie battute, e vi anticipo che abbiamo pensato di poter continuare, più avanti, scambi di questo tipo. Stay tuned.

 

Da: Luca Andreoni <luca@lucandreoni.com>
Data: 10 maggio 2015 19.08.10 GMT+02.00
A: Luca Panaro <lucapanaro.net@gmail.com>
Oggetto: Generazione critica

Caro Luca,
mi ha fatto molto piacere che tu abbia voluto darmi, quando ci siamo visti a Bergamo, i due volumi di Generazione critica che hai curato con Marcella Manni. Il primo, dell’anno scorso, come ti ho detto l’avevo già letto ma non lo possedevo, e mi sono precipitato a rileggerlo. Di seguito ho letto anche il secondo, ricavandone, devo dire, lo stesso piacere e la ricchezza di stimoli che a suo tempo mi aveva già dato il primo. In entrambi mi ha fatto piacere anche riconoscere i nomi di persone che conosco bene e per le quali nutro molta stima: una garanzia a priori. Non credo sia il caso qui di scendere in dettaglio sui tanti contributi che i due volumi contengono – ripeto, sono tutti interessanti, utili e in qualche caso anche per me affascinanti, e potrei fermarmi qui.

Ci sono tuttavia due osservazioni che mi preme farti.
La prima riguarda la questione del linguaggio usato. Cerco di essere conciso: sappiamo bene come un serio impianto saggistico richieda un linguaggio appropriato e controllato – dunque a volte anche impegnativo. Io non sono certo tra quelli che pensano che la divulgazione debba essere a tutti i costi facile, figuriamoci in saggi come questi… Ecco, forse più che la relativa difficoltà dei testi mi ha un po’ colpito il loro, a mio parere eccessivo, conformismo nei riguardi del linguaggio della tradizione accademica italiana (sto parlando della scrittura, intendiamoci, non dei contenuti!). La domanda è semplice: visto che i saggi si occupano in gran parte degli elementi di novità nel panorama della fotografia (e non solo), non credi che all’analisi di fenomeni nuovi dovrebbero corrispondere anche tentativi di linguaggi nuovi? Perché mi hanno dato l’impressione di strizzare l’occhio agli ordinari delle università e al loro linguaggio? Non so se pensare al desiderio inesausto di cooptarsi all’interno di un sistema culturale che peraltro sappiamo respinge le nuove leve o al fatto che si sono letti troppi saggi francesi, tradizionalmente più oscuri, rispetto ai solitamente chiarissimi testi anglosassoni. Scusa se forse sembro un po’ brutale, ripeto, voglio molto bene alle persone che conosco che hanno collaborato a questi volumi, non c’è nulla di personale ma piuttosto la vedo come una importante questione intellettuale.
La seconda questione riguarda una singolare coincidenza. Proprio nelle ultime due o tre settimane in ben tre occasioni diverse mi son sentito dire da autori/artisti piuttosto giovani – ma comunque con un lavoro già abbastanza solido – che non sentono di avere un, come chiamarlo?, sistema critico di riferimento, non sentono di avere contenitori critici per il loro lavoro. Ti dico subito che ogni volta ho detto loro che a me pare che i critici debbano arrivare dopo i loro lavori, non prima. Altrimenti si tratta di operazioni, come le ha chiamate di recente Vittore Fossati proprio a Bergamo, più di marketing/packaging che di vera ricerca, e comunque di solito sono una modalità più diffusa a livello curatoriale che critico. Ti confesso che la cosa mi ha un po’ spiazzato. Sicuramente i più giovani soffrono dell’assenza di contributi critici che riguardino il loro lavoro –  e volumi come il vostro sicuramente sono una bellissima eccezione – ma aspettarsi in un certo senso che la critica costruisca a priori un sistema al quale riferirsi mi suona strano. Ecco, mi chiedo se nella tua posizione, che vedo molto di frontiera avanzata su questi temi, ti siano capitate le stesse richieste, e cosa ne pensi.

Mi fermo qui, e ti ringrazio ancora: per i libri e per il vostro prezioso lavoro.
Luca

 

Generazione_critica

 

Da: Luca Panaro <lucapanaro.net@gmail.com>
Data: 12 maggio 2015 12.09.23 GMT+02.00
A: Luca Andreoni <luca@lucandreoni.com>
Oggetto: Re: Generazione critica

Caro Luca,
è stato un piacere partecipare agli incontri di fotografia che hai organizzato con la GAMeC di Bergamo. Questi sono tempi in cui il dialogo è l’unica cosa in cui vale veramente la pena investire. Generazione critica prima ancora di essere una collana di libri è un convegno annuale, ma anche un network che ci porta in varie città italiane per confrontarci sull’arte fotografica di oggi. Con Marcella Manni siamo già al lavoro per la terza edizione che si terrà a Modena presso Metronom il 23-24 ottobre 2015. Sono felice che tu abbia apprezzato il progetto e che la lettura dei volumi appena pubblicati da Danilo Montanari (editore colto e illuminato) ti abbiano suggerito le questioni che poni, alle quali cercherò di rispondere nel modo diretto che tu stesso suggerisci, e che apprezzo molto.

In Oriente si dice: «se qualcuno vi indica la luna, guardate la luna e non il dito puntato a indicarla». In seguito all’esposizione pubblica dei contenuti di Generazione critica ho conosciuto una serie di persone attente a guardare il dito ma incapaci di scorgere la luna. Scusa se la metto giù dura, ma per quanto la tua osservazione sia interessante e pertinente, ancora una volta si ostina a guardare nella direzione sbagliata. Sono d’accordo con te che il linguaggio sia importante, io sono il primo a prendere il modello anglosassone come esempio di chiarezza e semplicità, detto questo però credo che il punto sia un altro. Chiedere spiegazioni sul linguaggio in un epoca in cui nessuno si occupa di contenuti, è come fermare una partita di Champions League perché i giocatori hanno la maglietta sporca di fango, invece di concentrarsi sul gioco di squadra. Detto questo, ripeto, il linguaggio è importante, hai ragione, ma i contenuti lo sono ancora di più. Mi piacerebbe parlare di quelli. Sogno il giorno in cui si possa discutere di ciò che è stato fatto, non di quello che si sarebbe dovuto fare. Siamo tutti presi a cercare il pelo nell’uovo. Ma una volta trovato il pelo cosa rimane? Non rimane niente, l’uovo è ormai marcio. Quel niente che i giovani sentono sulle loro spalle come un macigno. E così mi collego alla seconda questione che poni.
I giovani autori che lamentano l’assenza di un sistema critico di riferimento hanno ragione. I critici non devo arrivare dopo i lavori degli artisti, ma assieme, a volte anche prima se possibile. I contenitori critici, come li chiami tu, sono fondamentali, è su quelli che si dovrebbe costruire la cultura del proprio tempo. Il problema, come giustamente sottolineato dagli artisti, è invece che mancano questi riferimenti. Mancano non perché non ci siano validi critici, teorici, artisti, intellettuali in genere… quello che manca è appunto un contenitore di queste risorse che altrimenti rischiano di andare disperse. Il progetto Generazione critica è nato proprio per questo, così come altre realtà che per fortuna stanno nascendo in risposta a questa mancanza. Dire che i critici devono arrivare contemporaneamente alle opere degli autori o addirittura prima, non vuole dire necessariamente parlare di strategie di marketing, anche se è vero che spesso accade questo fenomeno. Per come la vedo io il critico deve essere un compagno di viaggio per l’artista, non serve soltanto a divulgare il suo lavoro o a collocarlo sulla miglior piazza. A quello pensa già il curatore 😉 e qui potremmo disquisire per ore sulle differenze fra i due approcci. Il critico dovrebbe innanzitutto capire il proprio tempo, immergersi nelle problematiche culturali degli anni in cui vive (non del Novecento, siamo nel 2015), azzardare casomai qualche ipotesi sul futuro più prossimo, rischiare, sbagliare. È questo che manca agli artisti, questi riferimenti. Costruiti giorno dopo giorno andando a braccetto con gli stessi autori, senza ostilità, senza paura.

Ci conosciamo da pochi mesi caro Luca, ma abbiamo avuto più occasioni di dialogo noi che amici di vecchia data, almeno su questi temi. Continuiamo così, imparando a ricordare le parole delle persone con cui possiamo avere uno scambio di idee, dimenticando invece i silenzi di quanti si professano amici.
Un abbraccio,
Luca

 

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Le fotografie che non facciamo

Mi sono trovato di recente a riprendere in mano un libro di un paio d’anni fa che per varie ragioni non avevo letto, dunque le mie sono considerazioni un po’ inattuali, come del resto mi piace quasi sempre fare. Si tratta di un libro di fotografie atipico, perché raccoglie solo scritti che descrivono, o parlano di, fotografie non fatte. La raccolta, che comprende i contributi una sessantina di nomi, è stata realizzata da Will Steacy, un fotografo newyorkese che produce interessanti lavori molto impegnati nel sociale, per i quali tuttavia talvolta utilizza il lento grande formato. In questo caso però la sua operazione è una riflessione tutta interna al fare fotografia, e dedicata, appunto, alle occasioni nelle quali per varie ragioni non viene prodotta nessuna fotografia.

 

Photographs not taken

 

Il libro contiene testi perlopiù descrittivi, narrativi, dunque è agile da leggere. Traduco qui di seguito due brani dall’introduzione di Lyle Rexer perché in poche righe chiariscono il contenuto del volume:

[…] La brillante collezione di Will Steacy è dunque una delle forme di produzione di arte contemporanea che ci è familiare sin da quando nel 1958 Yves Klein presentò uno spazio vuoto alla Iris Cert Gallery? È il capitolo più recente di una storia di negazioni, rifiuti, strategie anti-artistiche, trucchi di marketing che a loro modo contribuiscono a definire l’arte contemporanea? Siamo a conoscenza di architetti che non costruiscono, di artisti che rinunciano a produrre oggetti, di registi che non raccontano storie, di musicisti che esplorano il silenzio, di coreografi rilassati nell’immobilità. Ma fotografi che rinuncino alle immagini – devono sicuramente essere gli ultimi esploratori dello spazio negativo. E sto parlando di fotografi classici, e non di quelli che hanno già rinunciato alle abitudini tradizionali della fotografia in cerca di maggiore rilevanza politica o di esplorazioni dell’ineffabile.

[…] In questo libro ci sono fotografie che non hanno potuto essere scattate, fotografie alle quali è stato impedito d’esser prese, fotografie che sono state fatte ma non sono riuscite, fotografie che si è quasi arrivati al punto di fare ma che si è scelto di abbandonare, che si potevano prendere ma alle quali si è rinunciato, fotografie che sono sfuggite e sono diventate memorie prima di poterle prendere, e naturalmente fotografie di qualcosa che in realtà erano di qualcos’altro che non si poteva mostrare direttamente.

L’argomento è affascinante, e sono certo che ognuno sia immediatamente andato col pensiero alle proprie fotografie non fatte. Devo subito però dire che questo libro mi ha fatto venire un grande appetito ma non l’ha saziato – penso che si potesse fare di più. Il fatto è che nel volume sono raccolti contributi che in gran parte fanno capo a fotogiornalisti o a fotografi che gravitano molto nell’area, come chiamarla?, della comunicazione. E perfino la gran parte dei contributi di autori consolidati in campo artistico (tanto per fare un esempio, l’italiano Massimo Vitali) alla fin fine non si impegnano in una vera riflessione sul significato e sul senso di un “fotografia non fatta”, bensì si dilungano in -talvolta anche affascinanti- racconti di fatti: degli eventi che hanno prodotto quell’assenza. Perlopiù, tra l’altro, legati a quell’idea di momento decisivo che francamente considero essere ormai da evitare come la peste – e una delle più importanti ragioni della crisi, anzi forse della morte, del fotogiornalismo. È un aspetto complesso che sicuramente incide pesantemente sulla fotografia che in generale ha a che fare con le persone, sul quale senz’altro torneremo.

I racconti nel volume sono comunque interessanti, perché mostrano nostalgie, ansie, dubbi, rimpianti, imbarazzi e perfino, in qualche caso, soprassalti etici: dimostrano insomma che i fotografi, specialmente quelli “del mestiere”, sono dei sentimentali – il che mi pare anche una bella cosa, immersi come siamo nello sbrigativo cinismo del nostro tempo. Ho anche pensato che dovrei dire la mia, su questa questione, e lo dico qui nel prossimo paragrafo. Mi piacerebbe anche chiedere a chi legge un suo contributo di riflessione – ma forse mi spingo troppo in là…

Per quanto mi riguarda, penso che un fotografo viva costantemente immerso in fotografie non fatte. Io sinceramente ne vedo in continuazione, e preciso che sto parlando della realtà fisica, non del web o di altro. Vivo (viviamo?) in una specie di flusso ininterrotto di possibili fotografie che si parano davanti, ognuna delle quali potrebbe anche a suo modo essere importante e interessante – a volte unica, a volte inizio di una serie, chissà. Vedo continuamente apparire nel mondo che mi circonda, ed è bellissimo, anche immagini di altri, dei miei tanti riferimenti che qui non posso elencare – permettete il pudore. È un piacere continuo, e non ho affatto nostalgia delle immagini che lascio andare. Tutte queste immagini non le sento come perdute, perché non sono mie: semplicemente mi scorrono davanti. Si fa un po’ di festa, ovviamente, quando si prende la decisione – nel mio caso rara – di trattenerne qualcuna. Decisione spesso molto meditata e anche, scusate la brutta parola, progettata. Comunque rara, come tutte le feste.
Penso che i fotografi abbiamo dentro di sé un istinto predatorio che andrebbe tenuto a bada ed educato, perché spesso i fotografi hanno la tendenza a fare il deserto intorno a loro, prendendo, o cercando di prendere, tutto il possibile nelle varie situazioni che incontrano – e la semplicità del digitale ha portato questo aspetto a punti a volte estremi. Ecco, a me succede spesso, anche mentre lavoro ai miei progetti, il contrario: di vedere altre immagini importanti e di pensare, letteralmente: questa la lascio qui per il prossimo fotografo che passerà da queste parti. L’acqua del fiume, lo sappiamo, non è mai la stessa – ma, spero, ci siamo capiti.

 

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Chiamatelo Ishmael

Poco meno di un anno fa, nell’inseguire la vicenda di Maxime Du Camp e di Gustave Flaubert in Egitto, ho incontrato un libro che le dedica una attenzione particolare, analizzandone a fondo un aspetto particolarmente intrigante, che mi ha stimolato molte riflessioni sui possibili significati di quelle presenze umane così frequenti nella fotografia dell’Ottocento: quelle che tra me e me chiamo “l’omino davanti all’architettura”.

Maxime Du Camp, Thèbes, Colosse Monolithe d‘Amenopht III

Maxime Du Camp, Thèbes, Colosse Monolithe d‘Amenopht III, 1849-51

Ho già parlato del viaggio di Maxime Du Camp, descrivendone un aspetto che mi interessava e che riguarda la questione delle attese per un artista – ma in questo volume altre porte vengono aperte, a dimostrare quanto spesso gli eventi siano complessi e stratificati. La lunga analisi di Julia Ballerini, nel volume The Stillness of Hajj Ishmael, edito nel 2010 da iUniverse, New York, Bloomington, è un esempio bellissimo di come si possa svolgere uno studio approfondito ed esteso a partire da un gruppo di fotografie, e come questo possa incrociare discipline diverse quali la storia, l’antropologia, la psicologia, l’economia, la letteratura e, naturalmente, la storia della fotografia. Un approccio trasversale che è per noi rarissimo vedere applicato alla fotografia, il più delle volte oggetto solo di attenzioni superficiali o, viceversa, molto specifiche.
Questo mio intervento non vuole essere un riassunto o una mera recensione del libro: da un lato perché sarebbe davvero molto complesso condensare il ricco contenuto del volume, dall’altro perché forse mi interessa di più invitare quanti possono leggere in lingua inglese ad avvicinarsi a questo tipo di letture e allo stesso tempo proporre alcune mie osservazioni.

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L’incipit del volume ci porta immediatamente dentro a qualcosa che assomiglia molto alle atmosfere di un libro giallo (la traduzione è mia):

Quando lo scrittore Maxime Du Camp all’età di ventisette anni andò in Egitto nel novembre 1849, accompagnato dall’amico coetaneo Gustave Flaubert, i due navigarono su e giù per il Nilo durante sei degli otto mesi della loro permanenza, prima di continuare il loro viaggio nei sette mesi seguenti in Palestina, Siria, Turchia, Grecia e Italia. Du Camp aveva acquistato una macchina fotografica per questo viaggio; la maggior parte dei 216 negativi furono realizzati durante il viaggio sul Nilo. Meno di due mesi dopo aver lasciato l’Egitto la vendette a Beirut, e non fotografò mai più. Delle 125 immagini che vennero pubblicate in quello che divenne il primo importante album fotografico di questo tipo, 112 vennero realizzate in Egitto.
Nelle fotografie egiziane di Du Camp una piccola e scura figura appare, scompare, e riappare ancora in punti inaspettati, sempre solitaria. Basandosi sulle note di viaggio di Du Camp questa figura è Ishmael, un marinaio nubiano che era membro dell’equipaggio di Du Camp, unico modello che lui dichiara di aver utilizzato come “unità di misura” nel riprodurre gli antichi monumenti.

Basta l’elenco dei capitoli del volume per capire lo spessore della pressoché ventennale investigazione che Julia Ballerini ha condotto, a partire dalla fascinazione iniziale per quella figura man mano sempre più misteriosa ai suoi occhi, incontrata nel 1983 studiando l’album fotografico tanto famoso:

1. Home and its unfamiliar: Paris
2. Abroad and its familiar: Turkey and Algeria
3. In search of home: Brittany
4. 1848 Revolution and Algeria revisited
5. Preparing the Voyage en Orient
6. Cairo, the borrowed city
7. La maison démolie
8. The return of the repressed: Du Camp’s dream
9. The stillness of Hajj-Ishmael

Julia Ballerini conduce un’analisi approfondita delle condizioni storiche da un lato e dei movimenti interiori dall’altro che portarono Du Camp a realizzare quel viaggio e a condurre quella importante e inedita campagna fotografica, con modalità che sono conseguenza e specchio dell’essere un uomo del suo tempo. Nel volume vengono affrontate, con ampi riferimenti sia alla situazione dell’epoca che alla produzione artistica e letteraria, le vicende che Du Camp si trova ad affrontare nel suo tempo – e nella sua vita personale, segnata dalla precoce scomparsa dei suoi riferimenti familiari. Ci si trova così a intuire i complessi intrecci politici, economici, storici, ma anche inconsci e personali che producono  i comportamenti di un autore e che ne condizionano i risultati.

Dal punto di vista della situazione della società dell’epoca, Ballerini evidenzia con chiarezza l’effetto fortissimo che producono su una persona come Du Camp i sommovimenti politici (basti citare i moto parigini del 48, nei quali Du Camp si pose dalla parte della Guardia Nazionale, venendo addirittura ferito), così come la situazione di rapidissima industrializzazione ad opera del nascente capitalismo borghese. Questo comportò nuove distorsioni anche sull’assetto urbano e sociale delle grandi città, per l’enorme afflusso di lavoratori immigrati dalle province verso le maggiori città, creando quella che Ballerini definisce “racialization” di Parigi, che iniziò a soffrire di un crisi d’identità per le mescolanze culturali (pur se conseguenza, a quel tempo, di migrazioni soprattutto interne al territorio francese), e che in qualche modo iniziò, nella upper class alla quale Du Camp apparteneva, un fenomeno che Ballerini con un termine azzeccato definisce “ipocondria culturale”, quasi una sorta di depressione intellettuale.

Le rapide trasformazioni sociali portarono con sé sentimenti profondi di perdita e di ansia, sotto l’assalto delle nuove masse che trasformavano e complicavano le abitudini consolidate – da cui sentimenti diffusi di regressione e di disordine culturale che influenzarono anche la produzione intellettuale e perfino scientifica dell’epoca. E quasi paradossalmente, secondo Ballerini, la ricerca dell’identità perduta si attuò anche con il viaggio – spesso viaggio estremo e lontano, in paesi esotici, proprio perché in questi luoghi è più evidente la differenza con il proprio paese. L’identità veniva così a basarsi sulle percezione delle differenze, questione che sta anche alle radici del colonialismo e delle sue logiche e psicologie, delle quali Ballerini ci indica molti aspetti.

In quest’ottica la ricerca delle rovine di un glorioso e antico passato diventa anche, secondo Ballerini, una sorta di inconscia prefigurazione della fine della propria civiltà, presagio potente anche al di là delle talvolta opportunistiche intenzioni documentarie e scientifiche. Il viaggio in Oriente e le mode che ne conseguono, già iniziate in epoca napoleonica, in questo modo svolgono la funzione di doppio viaggio nel tempo: si esplora un passato memorabile, che è però anche prefigurazione del proprio futuro. E la fotografia, con la novità del suo aspetto di imparziale e precisissimo documento, offrì sponda perfetta a questi sommovimenti, sia perché confermava, mostrando le antiche rovine, la possibilità della catastrofe e della fine della civiltà, sia perché promise di conservare per il futuro la memoria dello status quo, del presente. La fotografia, dice Ballerini, rassicura l’ansia del tempo.

Maxime Du Camp, Tempio di Wady Kardassy, 1849-51

Maxime Du Camp, Temple de Wady Kardassy, Nubie, 1849-51

 

Stiamo cominciando a guardare queste immobili e frontali fotografie con uno sguardo un po’ diverso, non è così? È esattamente, mi pare, il paesaggio rinnovato che lo sguardo acuto dell’investigatore offre ai nostri occhi dopo la rivelazione di quanto ha scoperto. Il volume, ovviamente, contiene nei primi capitoli analisi e dimostrazioni ben più approfondite di quanto queste righe possano dar conto – ma basti, magari, per incuriosire a saperne di più.

Du Camp, diciamolo, non è un grande fotografo. Le sue fotografie sono quasi sempre molto convenzionali (Ballerini le definisce pre-fotografiche), e non hanno quei lampi di genio che altri, più o meno nella stessa epoca e negli stessi luoghi, hanno o avranno – basti citare l’amico Gustave Le Gray o Francis Frith. Tuttavia, l’aspetto che questo libro evidenzia è che ad essere interessanti non sono tanto le intenzioni consce di Du Camp quanto quelle inconsce, che diventano più evidenti man mano che si studia il contesto nel quale cresce e opera. Dal punto di vista scientifico questo libro evidentemente tira un poco verso il limite la sua indagine, come spesso succede quando si incrociano diverse discipline, ma la cosa dà i suoi frutti – può essere utile anche questo tipo di sforzo, purché non ricada nella forzatura.

In questa chiave, perfino gli atteggiamenti tipici del repertorio fotografico ottocentesco – quali la ricerca ordinatrice di una posizione elevata, o l’atteggiamento di freddo e controllato distacco dalla realtà – vengono qui riletti in chiave diversa dal solito: non formale o concreta, ma portatrice delle istanze intellettuali di un’epoca e delle sue insicurezze di fronte al caos crescente della vita, nonché delle vicende personali dell’autore. Du Camp, secondo Ballerini, è più interessato al processo del realizzare un’immagine che al risultato finale – nel quale infatti lui risulta essere sostanzialmente assente. Una apparente dichiarazione di neutralità assoluta, che però, secondo Ballerini, è anche una sorta di camouflage. Du Camp crea una sorta di cortina fumogena dietro la quale nasconde se stesso.

Siamo arrivati, così, ad Hajj-Ishmael e alla sua immobilità.

Maxime Du Camp, Hypètre d'Athor, sur la Terrasse du grande Temple de Dendérah (Tentyris), 1849-51

Maxime Du Camp, Hypètre d’Athor, sur la Terrasse du grande Temple de Dendérah (Tentyris), 1849-51

 

Tutto quello che sappiamo di Hajj-Ishmael è in pochi brani nei diari di viaggio di Du Camp:

Ogni volta che visitavo un monumento avevo l’apparecchiatura fotografica e portavo con me uno dei nostri marinai, Hajj-Ishmael, un magnifico nubiano che facevo arrampicare sulle rovine che volevo fotografare, così che potevo sempre includere un elemento che desse idea delle proporzioni.
La più grande difficoltà era far sì che restasse perfettamente fermo mentre facevo le mie operazioni, e infine ci riuscii con un trucco: gli dissi che il tubo d’ottone della lente che spuntava dalla fotocamera era un cannone, che avrebbe vomitato una valanga di mitraglia se lui avesse avuto la sfortuna di muoversi – questo lo immobilizzava completamente, come ben si può vedere nelle mie fotografie.

Erano richiesti due minuti di posa e dunque un congelamento che assomiglia alla morte, o, dice Ballerini, alla mummificazione, con il processo che nella fotografia trasforma un soggetto in un oggetto (Barthes). La fotografia, lo sappiamo, effettua una sorta di taglio temporale che molti apparentano alla morte. C’è anche un altro taglio nelle fotografie di Du Camp: in molti casi Hajj-Ishmael, dalla pelle scura, posto davanti ad antichità scurite dal tempo diventa quasi invisibile, non fosse che per il bianco triangolo di lino che gli copre le parti intime. Anche questa, nota Ballerini, è un’altra strana caratteristica: perché quest’uomo è quasi sempre seminudo? In altre immagini di Du Camp raramente appaiono altre figure, e quando lo fanno sono sempre vestite del lungo abito tradizionale (quando addirittura non è lo stesso Flaubert ad apparirci così travestito in una delle immagini). Hajj-Ishmael è sempre seminudo. E data la costruzione attenta e la complessità di realizzazione non è pensabile che questa non fosse una scelta, in un certo senso teatrale, dell’autore. Si conosce bene il ruolo della nudità nelle immagini coloniali di tutti i tempi per non capirne il significato incrociato legato al razzismo, al senso di superiorità sul “primitivo” e ad allusioni sessuali, qui anche omoerotiche, ma comunque basate su un chiaro meccanismo di potere: Du Camp era vestito.

Le stesse posizioni che Hajj-Ishmael assume nelle fotografie sono spesso anticonvenzionali, appunto quasi fossero le figure di un teatro vivente, devianti rispetto alle intenzioni dichiarate dell’essere una mera unità di misura. Quella del posizionamento delle figure nella scena era materia di studio e discussione già da tempo per la pittura e Du Camp di certo non ne era ingenuo. Così Hajj-Ishmael, unico elemento attuale nelle immagini di Du Camp, in un certo modo si fonde con le rovine, diventa, dice Ballerini, scultura anch’esso, e si collega così al glorioso passato storico, emancipandosi così dallo sguardo inevitabilmente un po’ razzista del colonialista europeo – che tra l’altro in quell’epoca, suggerisce il testo, interpreta sempre il viaggio verso terre lontane come un viaggio verso il passato, basato sul senso coloniale di superiorità tecnologica, di progresso, di sviluppo.

A dimostrare la particolarità della relazione tra Du Camp e Hajj-Ishmael Ballerini nota altri due elementi: il primo, che Hajj-Ishmael è sempre solo. Non vi sono, come invece succede spesso nelle immagini di altri fotografi, altre figure, magari disposte nello spazio a rivelarne la profondità – il rapporto è diretto tra chi scatta e chi fa da modello, che oltretutto guarda quasi sempre in macchina (o guarda Du Camp?). L’altro elemento sta nel fatto che Du Camp si premuri in più di una occasione, nei suoi testi, di dirci il nome del suo “strumento di misura”. Una personalizzazione di questo tipo è del tutto inusuale, dice Ballerini. I servi erano citati nei testi dei viaggiatori, ma raramente per nome – i servi sono solo corpi che svolgono funzioni (“la guida”, “il cammelliere” eccetera) e non identità precise e, vien da dire, umane. E anche se non ci viene detto nulla della personalità di Hajj-Ishmael, c’è un dialogo invisibile, quasi un rispecchiarsi, tra Hajj-Ishmael e Du Camp (che tra l’altro vantava di avere anche sangue arabo nelle vene). Ballerini la definisce una romantica proiezione di se stesso.

Fermiamoci qui. Chiunque abbia riflettuto un poco sul gesto del fotografare sa bene quanto nelle immagini prodotte dall’apparecchio, apparentemente solo meccanico, vi sia una potente proiezione inversa – dal fotografo alla realtà. Scovarne le tracce anche in fotografie che sono dei veri e propri incunaboli di una lunga tradizione è stato per me un viaggio affascinante, permesso da questo libro.

Nota: come già nella puntata precedente, ne annuncio una seguente. Maxime Du Camp è stato a suo modo un personaggio straordinario: nel 1860 addirittura partecipò alla spedizione di Garibaldi nel Regno delle Due Sicilie. Questo fatto mi ha fatto venire in mente un’altra storia da raccontarvi…

 

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Un immaginario già presente

Da: Luca Andreoni <luca@lucandreoni.com>
Data: 29 dicembre 2014 12.07.16 GMT+01.00
A: Andrea Botto <info@andreabotto.it>
Oggetto: 19.06_26.08.1945

Caro Andrea,
il tuo libro mi è arrivato, e aspettavo queste feste per scriverti qualcosa, perché mi ha colpito con sentimenti contrastanti, dunque ne approfitto adesso per dirti qualcosa.
Da un lato ammiro lo sforzo impressionante di raccolta e sistemazione, fatta con grande gusto visivo e fascinazione pura per l’immagine. Sono stato affascinato dal continuo mescolarsi di pubblico e intimo, che manda in tilt le abitudini visive che abbiamo, fino quasi a produrre una specie di ansia – e questa di certo è una forza positiva per questo tuo libro.
E potrei andare avanti ancora negli apprezzamenti (non ultimo il riconoscimento per il lavoro mostruoso che hai fatto nella riproduzione iperrealistica dei documenti). Però penso/spero ti interessi anche qualche critica, che dunque riassumo così:
dove sono le tue fotografie?
Io qui posso tra le righe riconoscere bene la “zampa” del Botto fotografo che stimo e apprezzo sempre… la riconosco nelle scelte, nella cura, nel gusto…
Ma francamente penso che questo lavoro sarebbe stato per me (ripeto: per me, magari solo per me!) ancora più ricco e splendido se tu avessi fatto davvero quel viaggio e avessi fatto le fotografie che sai fare così bene.
Ecco, quello che sento è il silenzio della tua voce più diretta, più sul terreno: quella delle tue fotografie.

Io non so quali siano le ragioni che ti hanno portato a questa scelta, che rispetto ma che mi pare omologarsi un po’ a un trend che mi pare tanto attuale quanto a rischio di usurarsi rapidamente – e che mi pare oltretutto caratteristica delle generazioni più giovani, giovanissime, alle quali (purtroppo!) io di certo non appartengo più ma dalle quali, permettimi, penso che anche tu forse dovresti ormai slegarti (non tanto per ragioni anagrafiche quanto per esperienza e qualità della tua storia). Io vedo soprattutto i pericoli di queste tendenze, e continuo decisamente a sostenere che qualcuno di noi deve pur continuare a provare a produrre immagini, a scattare fotografie senza cavalcare troppo quella che sembra una crisi. Come sai non condivido nel modo più netto le pratiche appropriative tanto diffuse oggi, e forse anche per questo ho accolto il tuo libro con i sentimenti contrastanti di cui ti ho detto. E sapendo benissimo quanto tu sia impegnato proprio sul fronte della produzione, perché di lavori fotografici ne fai molti, e potenti, questa differenza mi ha colpito ancora di più, credo.

Mi fermo qui: ne parleremo meglio, magari quando ci si vede; le parole scritte spesso sono fonte di fraintendimenti e spero di non rischiare che tu ti offenda o ti infastidisca, non è assolutamente mia intenzione, e ti rinnovo la mia stima per la tua figura, che sto vedendo da tempo crescere e rinforzarsi.
Un caro saluto e un abbraccio, ciao!

Luca


Da: Andrea Botto <info@andreabotto.it>
Data: 29 dicembre 2014 19.25.02 GMT+01.00
A: Luca Andreoni <luca@lucandreoni.com>
Oggetto: Re: 19.06_26.08.1945

caro Luca,

grazie per il tuo messaggio e per le tue parole.

sono molto felice anche per la critica, che mi sembra come sempre puntuale e ragionevole.
apprezzo molto la sincerità, soprattutto delle persone e dei colleghi di cui ho stima.

capisco le tue osservazioni e non ti nascondo che sono stato molto combattuto anch’io nella costruzione di questo progetto,
se fosse necessario o no, per me, come persona e come autore, compiere davvero quel viaggio, magari a ritroso, accettando la sfida e il rischio di tornare a casa
anche senza immagini (perché no?).

alla fine ho scelto di non spostarmi fisicamente e che mi interessava lavorare su un immaginario già presente (in questo caso legato alla guerra e al conflitto), che tutti abbiamo dentro e che la fotografia sa così potentemente attivare, funzionando come un interruttore.

se proprio devo trovare un punto a sfavore, potrebbe essere il tempo intercorso tra produzione e pubblicazione.
il progetto è dell’estate del 2010 ed è nato da subito come libro d’artista.
purtroppo ci sono voluti quattro anni per vederlo pubblicato (nonostante il premio al FotoBookFestival Dummy Award nel 2012) e sapevo benissimo che questo avrebbe fatto perdere al lavoro un po’ della sua attualità, facendolo cadere in quello che ora consideriamo “tendenza”, ma che allora non lo era ancora, almeno non in modo così marcato.
non solo sul fronte “found pictures”, ma anche per quel che riguarda la costruzione del libro.

al di là di questo, non mi sento di condividere il tuo pessimismo sulle pratiche “riappropriative” in generale, che certo non rappresentano una novità in sé (molti gli esempi da Walker Evans a Richard Prince), ma che assumono a mio avviso un significato del tutto diverso in un momento in cui l’immagine perde la sua fisicità su carta e viene resa disponibile in rete in quantità mai immaginabili solo dieci anni fa.
certo anch’io sono critico sull’utilizzo massivo e ormai “modaiolo” di questi sistemi, oltre ogni ovvia ripetizione, come d’altronde non sono nemmeno convinto che l’unica via d’uscita sia quella estetico/contemplativa/documentaria, ma credo che si debba distinguere tra l’analisi di un comportamento sociale che investe la fotografia e la qualità dei singoli progetti, in cui ogni scelta operata trova un certo grado di efficacia, soprattutto se parliamo dell’oggetto libro.
non si tratta quindi di cavalcare la crisi, ma di usarla per interrogarci su ciò che facciamo e per immaginare prospettive future, anche assumendo il rischio dell’errore.

la tua stessa critica mi è stata mossa anche da altri colleghi, che come te vedono tutto ciò come una pericolosa deriva.
credo che le nostre posizioni su questo tema rappresentino due fronti ben presenti nella fotografia contemporanea, ognuno legato in qualche modo ad una propria idea di ciò che la Fotografia sia stata o potrà essere, ognuno con un proprio grado di conservatorismo e progressismo allo stesso tempo, quindi alla fine due facce della stessa medaglia non alternative.

continuo ad essere convinto della necessità di produrre le mie immagini, ma anche di usare il mezzo che si ritiene migliore per tradurre l’idea in progetto.
non è la prima volta che uso nei miei lavori fonti non prodotte direttamente da me, ma probabilmente questo libro mi ha dato la possibilità di sentirmi libero,
di capire finalmente che il mio interesse e la mia ricerca sono rivolti non tanto al soggetto che sto guardando o fotografando, ma piuttosto alla Fotografia, al linguaggio che sto usando.
credo che da questa presa di coscienza tutto il mio lavoro futuro non potrà che uscirne rafforzato.

ma avremo modo di parlarne anche dal vivo, prima o poi, sperando di poter sempre ricambiare la tua stima e la tua onestà intellettuale, di cui ancora ti ringrazio.

un forte abbraccio e a presto,
Andrea.

 

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