Sembrano ingenue

Anne Brigman è stata una delle figure più significative del movimento pittorialista americano. In generale, mi pare che vi sia oggi finalmente un’attenzione crescente per questo tipo di produzioni che, a cavallo della fine dell’Ottocento e dei primi vent’anni del Novecento, per la prima volta si occuparono del problema della fotografia come arte, proponendo alcune prime importanti risposte a tale questione. Anche se oggi quel tipo di produzione a molti pare ingenuo, contiene tuttavia lezioni importanti – che potrebbero magari costringerci a chiederci quanto ingenue ci sembreranno tra un po’ di tempo tante odierne produzioni cosiddette artistiche che approfittano a mani basse delle semplicità manipolative offerte dalla tecnologia digitale…

Anne Brigman, Soul of the Blasted Pine, 1907

Anne Brigman, Soul of the Blasted Pine, 1907

Il lavoro della Brigman è interessante e importante ancora oggi per molte ragioni. Elencarle senza sapere che si parli di una donna nata nel 1869 ce la farebbe sembrare tranquillamente una delle tante artiste oggi così attive: amica di scrittori importanti (tra i quali Jack London), produce immagini controllate e manipolate nelle quali spesso utilizza sé stessa come soggetto – il più delle volte con dei nudi immersi in potenti ambienti naturali. Oggi li definiremmo autoritratti staged, e potrei ad esempio citare il lavoro, a mio parere sopravvalutato, di Francesca Woodman, con il quale mi pare vi siano molte affinità.

Il lavoro di Anne Brigman viene riconosciuto e apprezzato dalle figure più importanti della fotografia del suo tempo (basti qui citare Stieglitz, che pubblica le sue immagini in ben tre numeri di Camera Work e che ne sostiene a più riprese il lavoro con mostre e presentazioni). Brigman vince molti premi presso le più importanti istituzioni e associazioni fotografiche anche se in qualche modo il suo lavoro si pone quasi agli estremi di quello che per il suo tempo è considerato accettabile, soprattutto da una donna, mescolando influssi simbolisti, romantici e classici, nonché influenze dettate dalla giovinezza hawaiana.

Non voglio millantare una conoscenza davvero approfondita del suo lavoro, dunque mi fermo qui, invitando più che altro a riflettere su un suo ritratto at work nel suo studio, che mi ha sempre colpito per un fatto: il suo strumento di lavoro, un visore a luce solare utilizzato per il ritocco manuale dei suoi ampi negativi con matite e carboncini, mi ricorda in modo impressionante i computer portatili che oggi tutti noi utilizziamo, appunto, per ragioni simili, sentendoci così tanto moderni e originali. Pensiamoci.

Anne Brigman in studio, ca. 1915

Anne Brigman in studio, ca. 1915

 

Share

Nulla di nuovo

Una delle fotografie più affascinanti dell’Ottocento americano ritrae un photographic van, il carro di un fotografo, nel bel mezzo di un deserto nel Nevada. È stata realizzata nel 1867 da Timothy O’Sullivan (leggendario fotografo che si era fatto le ossa durante la Guerra di Secessione con Alexander Gardner) durante la prima di una serie di campagne di esplorazione geologica di alcune zone dell’Ovest degli Stati Uniti finanziate dal governo americano e capitanate da un geologo visionario, Clarence King. Per inciso, ricordo che King ricevette questo importantissimo incarico (la prima campagna di rilevamento governativa dopo la guerra) quando aveva ventisei anni. O’Sullivan ne aveva ventisette.

Timothy H. O'Sullivan, Desert Sand Hills near Sink of Carson, Nevada, 1867

Timothy H. O’Sullivan, Desert Sand Hills near Sink of Carson, Nevada, 1867

 

Su questa fotografia, un classico spesso presente nei libri di storia, sono state spese bellissime parole da parte di autori importanti – basti su tutti citare Robert Adams. È una immagine silenziosa e sospesa, come molte di O’Sullivan, che ci rimanda al fare fotografico: le tracce nella sabbia ci parlano di un accurato posizionamento del carro, le orme tracciano il percorso del fotografo che si è mosso per raggiungere la posizione di ripresa, che è poi quella dove siamo noi, che guardiamo dentro a questa immagine – come sempre: ma quelle orme ci fanno sentire lì, con un po’ di sabbia tra le dita.
L’orizzonte è nascosto, e mi è sempre parsa evidente la sensazione di trovarsi in mezzo ad un infinito Sahara, solitari e con l’unica rassicurante presenza del carro. Una immagine che pur senza essere drammatica allude all’avventura, al rischio dell’esplorazione, all’infinito di un vero viaggio.

Non è l’unica fotografia realizzata in quella campagna dove appaia quel carro. Ad esempio quella qui sotto ce lo fa vedere, più o meno con una ripresa simile, leggermente dall’alto. Ma la visione dell’orizzonte, e delle figure umane, mi pare faccia sì che qui non vi sia la magia evocativa della precedente, pur conservandone la purezza della luce e dell’essenzialità documentaria.

Timothy H. O'Sullivan, Steamboat Springs, Nevada, 1867

Timothy H. O’Sullivan, Steamboat Springs, Nevada, 1867

 

Qualche tempo fa ho avuto la curiosità di cercare dove fosse quel deserto, ed è bastata una veloce ricerca in rete per trovarlo. E con una certa sorpresa mi sono accorto che la duna dove era stato ripreso quel carro non è in mezzo a un immenso Sahara, bensì è, appunto, solo una grande duna. In un territorio indubbiamente desertico, ma diverso da quello che quella immagine ci fa immaginare. Andando a studiarsi meglio la cosa si capisce che anche ai tempi di O’Sullivan quella duna era nota, punto di riferimento per la rotta che avevano seguito decine di migliaia di cercatori d’oro e di migranti diretti verso la California già un decennio prima. E le stesse descrizioni di Clarence King della zona non sono così drammatiche, parlando di vegetazione lungo il Carson River.

osullivan9

 

E oggi? Al di là di intenzioni refotografiche, allego qui sotto alcuni screenshot, che mostrano la duna oggi. Non credo che sia cambiato molto nel paesaggio dai tempi di O’Sullivan. Certo, l’area è frequentata da altri tipi di carri. E nelle vicinanze ci sono alcune di quelle inquietanti zone di esperimenti militari che hanno il nome che inizia per Bravo seguito da un numero – chissà cosa ci sia di “Bravo” in queste cose… In particolare, nelle vicinanze di Fallon (cittadina che ai tempi di O’Sullivan ancora non esisteva, situata a poche miglia dalla duna) si estende l’area Bravo 20, nella quale negli anni 80 del Novecento un altro grande della fotografia americana, Richard Misrach, ha fatto alcune delle sue più belle e drammatiche fotografie dei suoi Desert Cantos.

 

Cosa ne esce da queste piccole scoperte? Che Timothy O’Sullivan era un grande fotografo. E che sapeva, come tutti i grandi fotografi, manipolare la realtà in modo che apparisse quello che era, grazie alla pienezza di uno stile documentario usato al meglio, ma anche qualcos’altro – quello che il fotografo voleva far sentire, oltre che vedere. E non c’è proprio nulla di nuovo o di strano nell’accorgersi di questo.
Presto riparleremo delle immagini riprese da O’Sullivan nel corso di queste campagne di “rilevamento” del territorio, che tanto hanno influenzato molta fotografia del Novecento e contemporanea – e delle loro scelte, appunto, manipolatrici della cosiddetta realtà.

 

Share

Il vuoto nello scaffale

Il nove maggio 1860 salpa dal porto di Marsiglia una goletta dal nome Emma. A bordo della nave ci sono personaggi importanti della cultura francese, imbarcati per perseguire un ambizioso progetto: quello di realizzare e documentare un Voyage en Sicilie et autour de la Méditerranée. A concepirlo e finanziarlo è uno dei più grandi scrittori francesi di tutti i tempi: Alexandre Dumas.
Prolifico e irruento, Dumas è al culmine della sua fama, e si aspetta grandi cose da questo viaggio:

Quello che voglio vedere, quello che soprattutto voglio farvi vedere, cari lettori, sono i luoghi della storia e anche delle fiabe: la Grecia di Omero, di Esiodo, di Eschilo, di Pericle e di Augusto; La Bisanzio del Basso Impero e la Costantinopoli di Maometto; la Siria di Pompeo, di Cesare, di Crasso; la Giudea di Erode e di Cristo, la Palestina dei Crociati; l’Egitto dei Faraoni, di Tolomeo, di Cleopatra, di Maometto, di Bonaparte, di Mehmet Ali e di Saïd Pascià…

Non c’è spazio, e forse nemmeno bisogno, di tratteggiare qui la figura di Alexandre Dumas. Relegato oggi nell’immaginario comune a scrittore di semplici avventure, Dumas è grandissimo scrittore, prolifico all’inverosimile e finissimo imprenditore di se stesso. La lista dei suoi capolavori comprende decine di opere tra le centinaia prodotte, realizzate anche grazie al supporto di numerosi scrittori prezzolati. Il suo magistrale utilizzo del feuilleton, la pubblicazione a puntate dei suoi romanzi su giornali e riviste di massa, lo fa anche padre delle odierne serie televisive che hanno tanto successo, e che ne utilizzano ancora oggi gli stessi schemi di base.

Gustave Le Gray, Ritratto di Alexandre Dumas, 1859

Gustave Le Gray, Ritratto di Alexandre Dumas, 1859

 

Imbarcato sulla Emma c’è anche un fotografo, in quel momento forse il più grande fotografo di Francia: Gustave Le Gray. Conosce Dumas da tempo, ed è suo il magnifico ritratto che vedete qui sopra, realizzato nel 1859 al ritorno di Dumas da un viaggio in Russia.
Raccontare la straordinarietà della figura di Gustave Le Gray fino al giorno dell’imbarco sulla Emma richiederebbe ben più di un post – ci vorrebbe forse un romanzo alla Dumas. Basti dire che è stato una delle figure centrali della fotografia dell’Ottocento: inventore di nuovi processi, grande stampatore, fotografo dell’Imperatore nonché uno dei cinque fotografi chiamati a realizzare la leggendaria Mission Héliographique del 1851; ritrattista eccezionale, diviene famoso anche grazie alle sue immagini di mare che per la prima volta, con l’utilizzo di tecniche raffinate, riescono a mostrare le nuvole nel cielo e a fermare le onde – le sue marine sono oggi battute a cifre altissime nelle aste, anche se all’epoca vennero vendute in centinaia di copie. Nei cinque anni precedenti al viaggio sulla Emma ha lo studio in quel famosissimo edificio al 35 di Boulevard des Capucines che dall’aprile 1860 diverrà lo studio di un’altra leggenda della fotografia francese, quel Gaspard-Félix Tournachon detto Nadar, che nel 1874 ospiterà proprio lì la prima mostra degli impressionisti.

Gustave Le Gray, Autoritratto, 1856-59

Gustave Le Gray, Autoritratto, 1856-59

 

 

Gustave Le Gray imbarcandosi sulla Emma segna in modo definitivo il suo destino. Non può saperlo, ma non tornerà più in Francia. E pensare che fino anche solo a pochi mesi prima era indeciso se accettare la proposta di Dumas… A deciderlo, probabilmente, la tremenda bancarotta decisa dal tribunale il 1 febbraio 1860, che lo priva dello studio e lo lascia coperto di debiti pesantissimi. Troppo artista e poco imprenditore, dicono le cronache e i commenti delle persone a lui vicine. Imbarcandosi nel viaggio con Dumas, Le Gray sfugge ai creditori e allo stesso tempo è in cerca di riscatto. Come vedremo, l’abbandono che pare temporaneo della sua carriera in Francia, e della moglie con i due figli, diverrà terribilmente definitivo.

Ma torniamo al viaggio della Emma. Partita da Marsiglia, dopo un paio di tappe sulla costa la nave arriva il 18 maggio 1860 a Genova. Qui si ferma per alcuni giorni, perché Dumas ha alcune incombenze da scrittore, tra le quali concludere il secondo volume delle Mémoires di Giuseppe Garibaldi, che sta riscrivendo – e romanzando – su incarico dello stesso Garibaldi.
Alexandre Dumas è un entusiasta sostenitore di Garibaldi, che aveva conosciuto a Torino pochi mesi prima ma del quale aveva già scritto molto fin da dieci anni prima. Non dimentichiamo che Dumas è una delle figure centrali della cultura francese del tempo (che era la cultura dominante dell’epoca, un po’ come quella americana oggi) ma anche una delle più popolari: in sostanza una potenza nella comunicazione, tanto che vi è oggi chi pensa che il decennale lavoro di Dumas intorno alla figura di Garibaldi sia stato decisivo, all’epoca, nel mutarne l’immagine – da quella sudamericana di bandito e sovversivo a quella europea di mitico e disinteressato rivoluzionario attento solo al bene dei popoli. Dovremmo dunque aggiungere alle mille qualità di Dumas anche quella di essere uno spin doctor ante litteram, se consideriamo che Garibaldi gli fu amico e che utilizzò quanto più potè le qualità di Dumas.

È proprio a Genova che arriva, alla fine di maggio, la notizia che Garibaldi è sbarcato a Marsala e che si sta dirigendo verso Palermo – che verrà presa il 27 maggio 1860. Detto fatto, il 31 maggio la goletta Emma parte da Genova diretta a Palermo, dove arriverà il 10 giugno 1860. Il Voyage sta cambiando.
Dumas viene accolto trionfalmente da Garibaldi, che subito ne utilizza le capacità comunicative – tra le altre cose mettendo subito al lavoro il fotografo che li accompagna. Gustave Le Gray si trova così ad essere straordinario corrispondente di guerra, realizzando tra gli altri un potente ritratto di Garibaldi stesso, oltre che di alcuni suoi generali, e vedute della Palermo bombardata, delle barricate e così via. Scrive Dumas, citando un suo dialogo con Garibaldi:

– Avete un fotografo con voi?
– Semplicemente, il primo fotografo di Parigi: Le Gray.
– Bene, fategli fare delle vedute delle rovine; bisogna che l’Europa ne venga a conoscenza: duemila e ottocento bombe in una sola giornata…

e più avanti:

Le Gray passa le sue giornate a fare delle magnifiche fotografie delle rovine di Palermo. Ne spedirò una collezione a Parigi, delle quali si potrà fare una mostra. Vi sono anche un magnifico ritratto di Garibaldi, di Türr e di altri.

Il Voyage sta adattando la sua fisionomia, e Le Gray sembra seguirne le mutevoli fattezze. In ogni caso, quella che mette a disposizione è la sua grande esperienza, e l’immensa qualità del suo occhio.

Gustave Le Gray, Ritratto di Giuseppe Garibaldi, 1860

Gustave Le Gray, Ritratto di Giuseppe Garibaldi, 1860

 

 

Il 21 giugno Dumas, Le Gray e gli altri partono alla volta di Catania via terra con il generale Türr, che tuttavia, molto malato, non potrà proseguire. La colonna si fermerà e il nostro gruppo, tra difficoltà e insolazioni, inizierà qui a soffrire qualche tensione.
Il 7 luglio tutti si reimbarcano sulla goletta che fa rotta verso Malta. Sembra essersi conclusa la parte garibaldina del Voyage, ma Dumas all’insaputa di tutti aveva proposto a Garibaldi:

Caro amico, ho appena attraversato la Sicilia in tutta la sua larghezza. Ovunque c’è grande entusiasmo, ma non ci sono armi! Volete che vi aiuti a cercarne in Francia? Aspetto la vostra risposta a Catania: se voi mi dite “Sì” io cambierò il mio viaggio in Asia e farò il resto della campagna con voi.

È a questo punto che probabilmente esplodono i conflitti forse già latenti a bordo della Emma, e il 13 luglio 1860, clamorosamente, Le Gray e altri due (Albanel e Lockroy) vengono sbarcati senza troppi complimenti sul molo del porto de La Valletta, a Malta. La Emma riparte subito, lasciando i tre con poche risorse economiche, un po’ sperduti in un luogo lontano. Dumas ritornerà da Garibaldi, lo accompagnerà fino a Napoli dove resterà negli anni seguenti con importanti incarichi – ma questa è un’altra storia.

Si decide forse qui il destino di Le Gray, che ad un tratto vede probabilmente sfumare ogni possibilità di riscatto in Francia e al quale ormai tocca arrangiarsi come può.
Il 26 luglio i tre partono per Beirut via Alessandria. Si sono procurati un incarico di Le Monde Illustré come corrispondenti di guerra in Siria, dove sotto le influenze rivali dei francesi, degli inglesi e dei turchi era esploso un conflitto, latente da tempo, tra i cristiani maroniti e i drusi, musulmani. Sulla via per Damasco Le Gray si fratturerà una gamba cadendo da cavallo, e anche questa avventura gli sarà preclusa. Ci restano alcune bellissime fotografie delle rovine di Baalbek, ma già dal 1861 le Gray è segnalato come stabilmente ad Alessandria, in Egitto.

Da qui in poi, ci dicono gli storici, le notizie si fanno frammentarie, i documenti scarsi. Di certo vediamo Le Gray in crescenti difficoltà, pur continuando la sua attività di fotografo. Nel dicembre 1861 muore a Parigi forse l’unico vero amico che gli era rimasto, Léon Manfras, che era anche l’avvocato che curava i suoi interessi tentando di ridurre il grande debito che gravava su le Gray dopo il fallimento dello studio. Con questa morte finiscono in sostanza anche le speranze di Le Gray di tornare in Francia e quello in oriente diventa un inevitabile esilio. È del novembre 1862 una lettera struggente che Gustave invia all'”amico” Nadar, nella quale lo prega di informarsi sulla sua situazione in Francia e, letteralmente, “Tu sai, amico mio, quanto io abbia fatto per la fotografia, dammi una pacca sulla spalla perché io possa venire ancora a pagarne il mio tributo a Parigi“. Non c’è traccia di una risposta di Nadar. La cosa sembra far da contraltare alla sparizione di Le Gray nei confronti della moglie e dei figli rimasti in Francia in gravissime difficoltà. Ad Alessandria Le Gray troverà comunque il modo di lavorare piuttosto bene: Alessandria è città ricca e cosmopolita, piena di stranieri e di viaggiatori, e la sua produzione ci mostra le immagini tipiche di un atelier di ritratto dell’epoca.

Dal 1864 Gustave Le Gray è a Il Cairo, dove aggiunge, a quella di fotografo, la professione di docente di disegno nelle Scuole Militari. Entra anche nelle buone grazie del governo e realizza numerose fotografie di soggetti militari, di rovine antiche, di ritratti della famiglia reale. La qualità del suo sguardo è sempre altissima – il fotografo è sempre vivissimo, pur nelle difficoltà.

 

Gustave Le Gray muore a Il Cairo il 29 luglio 1884. Nel 1883 ha avuto un figlio da una giovanissima donna locale, che ha cercato addirittura di registrare come moglie. Muore in sostanziale povertà, come attestato dall’inventario dei suoi beni trovati in casa, che gli è sopravvissuto al contrario della sua sepoltura. Qualche mobile, qualche vecchio manuale di chimica fotografica, qualche stampa, scarne attrezzature fotografiche, un solo obiettivo. Il destino, cinico e baro, che ha spesso colpito i grandi artisti, si è dato da fare anche con lui.

Il Voyage en Sicilie et autour de la Méditerranée, pieno di scritti baciati dal talento di Alexandre Dumas e illustrato da tante bellissime fotografie di Gustave Le Gray resta un capolavoro invisibile e irrealizzato, un vuoto oscuro negli scaffali dei musei.

 

Le_Gray_22

 

Share

Chiamatelo Ishmael

Poco meno di un anno fa, nell’inseguire la vicenda di Maxime Du Camp e di Gustave Flaubert in Egitto, ho incontrato un libro che le dedica una attenzione particolare, analizzandone a fondo un aspetto particolarmente intrigante, che mi ha stimolato molte riflessioni sui possibili significati di quelle presenze umane così frequenti nella fotografia dell’Ottocento: quelle che tra me e me chiamo “l’omino davanti all’architettura”.

Maxime Du Camp, Thèbes, Colosse Monolithe d‘Amenopht III

Maxime Du Camp, Thèbes, Colosse Monolithe d‘Amenopht III, 1849-51

Ho già parlato del viaggio di Maxime Du Camp, descrivendone un aspetto che mi interessava e che riguarda la questione delle attese per un artista – ma in questo volume altre porte vengono aperte, a dimostrare quanto spesso gli eventi siano complessi e stratificati. La lunga analisi di Julia Ballerini, nel volume The Stillness of Hajj Ishmael, edito nel 2010 da iUniverse, New York, Bloomington, è un esempio bellissimo di come si possa svolgere uno studio approfondito ed esteso a partire da un gruppo di fotografie, e come questo possa incrociare discipline diverse quali la storia, l’antropologia, la psicologia, l’economia, la letteratura e, naturalmente, la storia della fotografia. Un approccio trasversale che è per noi rarissimo vedere applicato alla fotografia, il più delle volte oggetto solo di attenzioni superficiali o, viceversa, molto specifiche.
Questo mio intervento non vuole essere un riassunto o una mera recensione del libro: da un lato perché sarebbe davvero molto complesso condensare il ricco contenuto del volume, dall’altro perché forse mi interessa di più invitare quanti possono leggere in lingua inglese ad avvicinarsi a questo tipo di letture e allo stesso tempo proporre alcune mie osservazioni.

Ballerini000

 

L’incipit del volume ci porta immediatamente dentro a qualcosa che assomiglia molto alle atmosfere di un libro giallo (la traduzione è mia):

Quando lo scrittore Maxime Du Camp all’età di ventisette anni andò in Egitto nel novembre 1849, accompagnato dall’amico coetaneo Gustave Flaubert, i due navigarono su e giù per il Nilo durante sei degli otto mesi della loro permanenza, prima di continuare il loro viaggio nei sette mesi seguenti in Palestina, Siria, Turchia, Grecia e Italia. Du Camp aveva acquistato una macchina fotografica per questo viaggio; la maggior parte dei 216 negativi furono realizzati durante il viaggio sul Nilo. Meno di due mesi dopo aver lasciato l’Egitto la vendette a Beirut, e non fotografò mai più. Delle 125 immagini che vennero pubblicate in quello che divenne il primo importante album fotografico di questo tipo, 112 vennero realizzate in Egitto.
Nelle fotografie egiziane di Du Camp una piccola e scura figura appare, scompare, e riappare ancora in punti inaspettati, sempre solitaria. Basandosi sulle note di viaggio di Du Camp questa figura è Ishmael, un marinaio nubiano che era membro dell’equipaggio di Du Camp, unico modello che lui dichiara di aver utilizzato come “unità di misura” nel riprodurre gli antichi monumenti.

Basta l’elenco dei capitoli del volume per capire lo spessore della pressoché ventennale investigazione che Julia Ballerini ha condotto, a partire dalla fascinazione iniziale per quella figura man mano sempre più misteriosa ai suoi occhi, incontrata nel 1983 studiando l’album fotografico tanto famoso:

1. Home and its unfamiliar: Paris
2. Abroad and its familiar: Turkey and Algeria
3. In search of home: Brittany
4. 1848 Revolution and Algeria revisited
5. Preparing the Voyage en Orient
6. Cairo, the borrowed city
7. La maison démolie
8. The return of the repressed: Du Camp’s dream
9. The stillness of Hajj-Ishmael

Julia Ballerini conduce un’analisi approfondita delle condizioni storiche da un lato e dei movimenti interiori dall’altro che portarono Du Camp a realizzare quel viaggio e a condurre quella importante e inedita campagna fotografica, con modalità che sono conseguenza e specchio dell’essere un uomo del suo tempo. Nel volume vengono affrontate, con ampi riferimenti sia alla situazione dell’epoca che alla produzione artistica e letteraria, le vicende che Du Camp si trova ad affrontare nel suo tempo – e nella sua vita personale, segnata dalla precoce scomparsa dei suoi riferimenti familiari. Ci si trova così a intuire i complessi intrecci politici, economici, storici, ma anche inconsci e personali che producono  i comportamenti di un autore e che ne condizionano i risultati.

Dal punto di vista della situazione della società dell’epoca, Ballerini evidenzia con chiarezza l’effetto fortissimo che producono su una persona come Du Camp i sommovimenti politici (basti citare i moto parigini del 48, nei quali Du Camp si pose dalla parte della Guardia Nazionale, venendo addirittura ferito), così come la situazione di rapidissima industrializzazione ad opera del nascente capitalismo borghese. Questo comportò nuove distorsioni anche sull’assetto urbano e sociale delle grandi città, per l’enorme afflusso di lavoratori immigrati dalle province verso le maggiori città, creando quella che Ballerini definisce “racialization” di Parigi, che iniziò a soffrire di un crisi d’identità per le mescolanze culturali (pur se conseguenza, a quel tempo, di migrazioni soprattutto interne al territorio francese), e che in qualche modo iniziò, nella upper class alla quale Du Camp apparteneva, un fenomeno che Ballerini con un termine azzeccato definisce “ipocondria culturale”, quasi una sorta di depressione intellettuale.

Le rapide trasformazioni sociali portarono con sé sentimenti profondi di perdita e di ansia, sotto l’assalto delle nuove masse che trasformavano e complicavano le abitudini consolidate – da cui sentimenti diffusi di regressione e di disordine culturale che influenzarono anche la produzione intellettuale e perfino scientifica dell’epoca. E quasi paradossalmente, secondo Ballerini, la ricerca dell’identità perduta si attuò anche con il viaggio – spesso viaggio estremo e lontano, in paesi esotici, proprio perché in questi luoghi è più evidente la differenza con il proprio paese. L’identità veniva così a basarsi sulle percezione delle differenze, questione che sta anche alle radici del colonialismo e delle sue logiche e psicologie, delle quali Ballerini ci indica molti aspetti.

In quest’ottica la ricerca delle rovine di un glorioso e antico passato diventa anche, secondo Ballerini, una sorta di inconscia prefigurazione della fine della propria civiltà, presagio potente anche al di là delle talvolta opportunistiche intenzioni documentarie e scientifiche. Il viaggio in Oriente e le mode che ne conseguono, già iniziate in epoca napoleonica, in questo modo svolgono la funzione di doppio viaggio nel tempo: si esplora un passato memorabile, che è però anche prefigurazione del proprio futuro. E la fotografia, con la novità del suo aspetto di imparziale e precisissimo documento, offrì sponda perfetta a questi sommovimenti, sia perché confermava, mostrando le antiche rovine, la possibilità della catastrofe e della fine della civiltà, sia perché promise di conservare per il futuro la memoria dello status quo, del presente. La fotografia, dice Ballerini, rassicura l’ansia del tempo.

Maxime Du Camp, Tempio di Wady Kardassy, 1849-51

Maxime Du Camp, Temple de Wady Kardassy, Nubie, 1849-51

 

Stiamo cominciando a guardare queste immobili e frontali fotografie con uno sguardo un po’ diverso, non è così? È esattamente, mi pare, il paesaggio rinnovato che lo sguardo acuto dell’investigatore offre ai nostri occhi dopo la rivelazione di quanto ha scoperto. Il volume, ovviamente, contiene nei primi capitoli analisi e dimostrazioni ben più approfondite di quanto queste righe possano dar conto – ma basti, magari, per incuriosire a saperne di più.

Du Camp, diciamolo, non è un grande fotografo. Le sue fotografie sono quasi sempre molto convenzionali (Ballerini le definisce pre-fotografiche), e non hanno quei lampi di genio che altri, più o meno nella stessa epoca e negli stessi luoghi, hanno o avranno – basti citare l’amico Gustave Le Gray o Francis Frith. Tuttavia, l’aspetto che questo libro evidenzia è che ad essere interessanti non sono tanto le intenzioni consce di Du Camp quanto quelle inconsce, che diventano più evidenti man mano che si studia il contesto nel quale cresce e opera. Dal punto di vista scientifico questo libro evidentemente tira un poco verso il limite la sua indagine, come spesso succede quando si incrociano diverse discipline, ma la cosa dà i suoi frutti – può essere utile anche questo tipo di sforzo, purché non ricada nella forzatura.

In questa chiave, perfino gli atteggiamenti tipici del repertorio fotografico ottocentesco – quali la ricerca ordinatrice di una posizione elevata, o l’atteggiamento di freddo e controllato distacco dalla realtà – vengono qui riletti in chiave diversa dal solito: non formale o concreta, ma portatrice delle istanze intellettuali di un’epoca e delle sue insicurezze di fronte al caos crescente della vita, nonché delle vicende personali dell’autore. Du Camp, secondo Ballerini, è più interessato al processo del realizzare un’immagine che al risultato finale – nel quale infatti lui risulta essere sostanzialmente assente. Una apparente dichiarazione di neutralità assoluta, che però, secondo Ballerini, è anche una sorta di camouflage. Du Camp crea una sorta di cortina fumogena dietro la quale nasconde se stesso.

Siamo arrivati, così, ad Hajj-Ishmael e alla sua immobilità.

Maxime Du Camp, Hypètre d'Athor, sur la Terrasse du grande Temple de Dendérah (Tentyris), 1849-51

Maxime Du Camp, Hypètre d’Athor, sur la Terrasse du grande Temple de Dendérah (Tentyris), 1849-51

 

Tutto quello che sappiamo di Hajj-Ishmael è in pochi brani nei diari di viaggio di Du Camp:

Ogni volta che visitavo un monumento avevo l’apparecchiatura fotografica e portavo con me uno dei nostri marinai, Hajj-Ishmael, un magnifico nubiano che facevo arrampicare sulle rovine che volevo fotografare, così che potevo sempre includere un elemento che desse idea delle proporzioni.
La più grande difficoltà era far sì che restasse perfettamente fermo mentre facevo le mie operazioni, e infine ci riuscii con un trucco: gli dissi che il tubo d’ottone della lente che spuntava dalla fotocamera era un cannone, che avrebbe vomitato una valanga di mitraglia se lui avesse avuto la sfortuna di muoversi – questo lo immobilizzava completamente, come ben si può vedere nelle mie fotografie.

Erano richiesti due minuti di posa e dunque un congelamento che assomiglia alla morte, o, dice Ballerini, alla mummificazione, con il processo che nella fotografia trasforma un soggetto in un oggetto (Barthes). La fotografia, lo sappiamo, effettua una sorta di taglio temporale che molti apparentano alla morte. C’è anche un altro taglio nelle fotografie di Du Camp: in molti casi Hajj-Ishmael, dalla pelle scura, posto davanti ad antichità scurite dal tempo diventa quasi invisibile, non fosse che per il bianco triangolo di lino che gli copre le parti intime. Anche questa, nota Ballerini, è un’altra strana caratteristica: perché quest’uomo è quasi sempre seminudo? In altre immagini di Du Camp raramente appaiono altre figure, e quando lo fanno sono sempre vestite del lungo abito tradizionale (quando addirittura non è lo stesso Flaubert ad apparirci così travestito in una delle immagini). Hajj-Ishmael è sempre seminudo. E data la costruzione attenta e la complessità di realizzazione non è pensabile che questa non fosse una scelta, in un certo senso teatrale, dell’autore. Si conosce bene il ruolo della nudità nelle immagini coloniali di tutti i tempi per non capirne il significato incrociato legato al razzismo, al senso di superiorità sul “primitivo” e ad allusioni sessuali, qui anche omoerotiche, ma comunque basate su un chiaro meccanismo di potere: Du Camp era vestito.

Le stesse posizioni che Hajj-Ishmael assume nelle fotografie sono spesso anticonvenzionali, appunto quasi fossero le figure di un teatro vivente, devianti rispetto alle intenzioni dichiarate dell’essere una mera unità di misura. Quella del posizionamento delle figure nella scena era materia di studio e discussione già da tempo per la pittura e Du Camp di certo non ne era ingenuo. Così Hajj-Ishmael, unico elemento attuale nelle immagini di Du Camp, in un certo modo si fonde con le rovine, diventa, dice Ballerini, scultura anch’esso, e si collega così al glorioso passato storico, emancipandosi così dallo sguardo inevitabilmente un po’ razzista del colonialista europeo – che tra l’altro in quell’epoca, suggerisce il testo, interpreta sempre il viaggio verso terre lontane come un viaggio verso il passato, basato sul senso coloniale di superiorità tecnologica, di progresso, di sviluppo.

A dimostrare la particolarità della relazione tra Du Camp e Hajj-Ishmael Ballerini nota altri due elementi: il primo, che Hajj-Ishmael è sempre solo. Non vi sono, come invece succede spesso nelle immagini di altri fotografi, altre figure, magari disposte nello spazio a rivelarne la profondità – il rapporto è diretto tra chi scatta e chi fa da modello, che oltretutto guarda quasi sempre in macchina (o guarda Du Camp?). L’altro elemento sta nel fatto che Du Camp si premuri in più di una occasione, nei suoi testi, di dirci il nome del suo “strumento di misura”. Una personalizzazione di questo tipo è del tutto inusuale, dice Ballerini. I servi erano citati nei testi dei viaggiatori, ma raramente per nome – i servi sono solo corpi che svolgono funzioni (“la guida”, “il cammelliere” eccetera) e non identità precise e, vien da dire, umane. E anche se non ci viene detto nulla della personalità di Hajj-Ishmael, c’è un dialogo invisibile, quasi un rispecchiarsi, tra Hajj-Ishmael e Du Camp (che tra l’altro vantava di avere anche sangue arabo nelle vene). Ballerini la definisce una romantica proiezione di se stesso.

Fermiamoci qui. Chiunque abbia riflettuto un poco sul gesto del fotografare sa bene quanto nelle immagini prodotte dall’apparecchio, apparentemente solo meccanico, vi sia una potente proiezione inversa – dal fotografo alla realtà. Scovarne le tracce anche in fotografie che sono dei veri e propri incunaboli di una lunga tradizione è stato per me un viaggio affascinante, permesso da questo libro.

Nota: come già nella puntata precedente, ne annuncio una seguente. Maxime Du Camp è stato a suo modo un personaggio straordinario: nel 1860 addirittura partecipò alla spedizione di Garibaldi nel Regno delle Due Sicilie. Questo fatto mi ha fatto venire in mente un’altra storia da raccontarvi…

 

Share

Non guardare niente, e ricordare tutto

Una delle cose che mi sconcertano della storiografia moderna è il suo disinteresse per il dato biografico. Intendiamoci: sono uno strenuo sostenitore di un approccio quanto più scientifico possibile allo studio della storia, e credo ad esempio che purtroppo in Italia si sia cominciato da poco tempo a occuparsi in questo modo della fotografia. Un approccio scientifico non significa però, a mio parere, escludere quasi completamente le vicende personali, e in fondo le emozioni, degli autori o artisti dei quali ci si occupa.

Non sono uno storico della fotografia, anche se ne sono molto appassionato, dunque credo di potermi permettere anche escursioni in territori un po’ più fluttuanti e instabili. In particolare, sono sempre molto attratto dalle vicende umane delle persone che la storia della fotografia l’hanno scritta facendola. Credo che questo abbia a che fare con il fatto che ho sempre sentito – con le dovute proporzioni! – una sorta di sentimento di fratellanza verso questi uomini e donne che hanno vissuto a fondo la loro vita con la fotografia. Non li ho dunque mai sentiti come padri, o come maestri lontani, bensì, appunto, come fratelli.  Fratelli, a volte, di un altro tempo e di un altro mondo, ma misteriosamente vicini.
E se è vero che, come diceva il grande storico dell’architettura Manfredo Tafuri, il maggior pericolo per uno storico è l’anacronismo – ossia il collocare fatti (o, dico io, anche modalità di pensiero) che appartengono a un’epoca a un’altra – credo che in molti casi possiamo, da non-storici, permetterci qualche slancio, perché osservare alcuni aspetti con le lenti di oggi potrebbe esserci d’insegnamento.

Maxime Du Camp

Maxime Du Camp – fotografia di Gustave Le Gray, 1849

Nel 1849 Maxime Du Camp ha ventisette anni, e decide di compiere un viaggio in Egitto e in Oriente allo scopo di compiere quello che è anche uno dei primissimi viaggi di documentazione fotografica delle antichità archeologiche presenti in quei luoghi. È un ricco e inquieto scrittore e viaggiatore, ambizioso e ben inserito nell’ambiente artistico e culturale di Parigi – che, non dimentichiamolo, a quell’epoca era il centro del mondo, un po’ come la New York di oggi. Per amici ha figure del calibro di Charles Baudelaire (che non senza qualche ironia gli dedicherà Le Voyage, il poema che chiude Les Fleurs du mal, qui in italiano e qui in francese), Théophile Gautier, Théodore Géricault e molti altri.

Du Camp, ogni storia della fotografia lo ricorda, tornerà a Parigi nel 1851, con 216 negativi realizzati con la tecnica del calotipo, che poco prima di partire gli aveva insegnato uno dei suoi amici, quel gigante della fotografia francese che ha nome Gustave Le Gray, e che Du Camp poi utilizzerà in una versione modificata da Blanquart-Evrard. Quella del calotipo è una tecnica che si basa sull’utilizzo di negativi di carta con macchine di grande e grandissimo formato, e come per altre tecniche ottocentesche fa impressione immaginarne l’uso nei climi torridi e avventurosi dell’Oriente. Viaggiare e fare fotografie a quel tempo era una attività davvero complicata: per capirlo basta andare a studiarsi il processo che era richiesto per realizzare una fotografia, buona parte del quale si doveva svolgere direttamente sul campo, subito prima e subito dopo lo scatto.

A Parigi, nel 1852, centoventicinque di questi negativi vennero stampati in duecento copie su carta salata (pare dallo stesso Blanquart-Evrard), e furono così prodotte duecento copie dell’album Égypte, Nubie, Palestine, Syrie, pubblicato dagli editori Gide & J. Baudry – conquistando così uno dei primissimi posti della storia di questo tipo di album fotografici. Du Camp dopo questa impresa smetterà del tutto di fare fotografie, ma questo viaggio accompagnerà la sua produzione letteraria a lungo.
Potete sfogliare una versione integrale dell’album – non ben riprodotta – presso il sito della Biblioteca Nazionale di Francia, ma in rete si trovano molti esempi delle tavole, con riproduzioni anche di ottima qualità.

Maxime Du Camp si era fatto accompagnare in questa vera e propria avventura da un caro amico, ed è affascinante leggere in parallelo i loro diari, le loro lettere agli amici e i rispettivi resoconti di viaggio. Purtroppo non tutto è stato tradotto in italiano, dunque abbiamo a disposizione un materiale frammentario, ma chiaro.
L’amico che accompagna Du Camp è un grandissimo: Gustave Flaubert.

Gustave Flaubert

Gustave Flaubert

Flaubert ha solo un anno in più dell’amico Maxime, ed è già il grande scrittore che conosciamo. Il legame tra i due è molto forte e di lunga data – basti pensare, ad esempio, che la figura di Fédéric, personaggio principare dell’Educazione sentimentale la cui prima stesura Flaubert aveva completato prima di questo viaggio, è in parte basata su quella di Du Camp, e che i due avevano già compiuto insieme un importante viaggio in Bretagna seguendo le orme di Chateaubriand. Du Camp è anche parte del cerchio ristrettissimo di amici ai quali Flaubert legge in anteprima i propri lavori, avendone poi pareri anche molto diretti, e stroncature severe – quale ad esempio quella che ricevette proprio da Du Camp riguardo alla prima versione del suo testo più visionario, La Tentazione di Sant’Antonio.

Nel viaggio Flaubert si comporta in modo molto diverso da Du Camp, e la loro corrispondenza lo rivela. Du Camp è attivissimo sia prima che durante il viaggio: si informa, organizza, lavora molto per realizzare le fotografie e ne stampa subito anche delle prove. In un saggio che ho trovato in una bella raccolta, Colonialist Photography, viene addirittura descritto come un esempio metaforico della ottocentesca frenesia borghese per la propria affermazione, basata sul fare. Flaubert al contrario è apatico, disinteressato, e anche se è in viaggio sul Nilo in luoghi straordinari sembra non accorgersene e passa gran parte del suo tempo sdraiato sul barcone che li trasporta.

È davvero interessante incrociare quanto i due scrivono, a partire da Du Camp:
(da Maxime Du Camp, Attraverso l’Oriente con Flaubert, ed. Novecento, Palermo 1986 )

Gustave Flaubert non condivideva la mia esaltazione, era tranquillo e viveva serenamente con se stesso. Aborriva il movimento, l’azione: se fosse stato possibile, avrebbe voluto viaggiare su un divano, e vedere i paesaggi, le rovine e le città passare davanti a lui automaticamente, come sullo sfondo mobile di una scena teatrale. Fin dai primi giorni della nostra permanenza al Cairo, avevo potuto notare la sua stanchezza e la sua noia; il viaggio tanto sognato, la cui realizzazione gli era sembrata impossibile, non gli dava nessuna soddisfazione; “Se vuoi tornare in Francia”, gli dissi allora, “ti farò accompagnare dal mio domestico”; ma egli rispose: “No, sono partito, e andrò fino in fondo; stabilisci tu dove andare, io ti seguirò. Per me è indifferente andare a destra o a sinistra”. I templi gli sembravano tutti uguali, i paesaggi sempre i medesimi, le moschee identiche le une alle altre. Ho il sospetto che davanti all’isola di Elefantina abbia rimpianti i prati di Sotteville e che, contemplando il Nilo, abbia pensato alla Senna. […] Davanti ai paesaggi africani, sognava la Normandia.

Flaubert riempie i suoi diari e le sue lettere di notazioni e descrizioni acutissime, dimostrando la distanza letteraria che lo divide da Du Camp, nonché di descrizioni vivide delle sfrenate attività sessuali che i due amici praticano in quei lembi quasi estremi del mondo dell’epoca – ma non manca spesso di rimarcare la frenetica attività dell’amico, più per frammenti che per discorsi compiuti:
(da Gustave Flaubert, Viaggio in Egitto, Ibis edizioni, Como-Pavia 1991  e da Gustave Flaubert, Cinque lettere dall’Egitto, Passigli Editori, Bagno a Ripoli 2007)

Non so come Maxime non si sia ancora ucciso per questa furiosa mania per la fotografia.
Domenica 5. – Ho sorvegliato gli stampaggi nel palazzo. Quando questa stupida incombenza fu terminata, passeggiata intorno a Karnak, dal lato Nord.
Lunedì. – Ancora stampaggio. Il mezzo mangia il fine, un buon ozio al sole è meno sterile di queste occupazioni a cui ci si dedica senza voglia.

In generale, Maxime Du Camp viene sempre descritto da Flaubert mentre sta facendo qualcosa. E Flaubert quasi sempre osserva. Ma infine, un giorno nei diari di Du Camp irrompe una frase decisiva, che ci spiega tutto:

Ai confini della Nubia inferiore, dell’orto di Gebel-Abusir che domina la seconda cascata, mentre guardavamo il Nilo spumeggiante tra le rocce aguzze di granito nero, Flaubert urlò: “Ho trovato! Eureka! Eureka! La chiamerò Emma Bovary!” e tante e tante volte ripeté, quasi lo gustasse, il nome di Bovary, pronunziando la o molto chiusa. A causa di uno strano fenomeno, le impressioni di questo viaggio riaffiorarono tutte insieme con grande forza quando scrisse Salammbô. Anche Balzac era così: non guardava niente e ricordava tutto.

Flaubert non si stava annoiando: aveva in gestazione il suo capolavoro, Madame Bovary. E come spesso appare da fuori, la sua attività era ridotta al minimo perché, possiamo pensare, era tutta rivolta all’interno, in quello stato un po’ sospeso che introduce il pensiero e precede la realizzazione. Le attese, i periodi di apparente sospensione, sono per un artista altrettanto importanti di quegli scatti in avanti, a volte frenetici, nei quali si dà mano alla produzione vera e propria – quando poi tutto, a volte, sembra poi facile perché maturato nell’attesa, nel silenzio.

Per Flaubert non fu un parto facile. Nel 1851 tornò in Francia nella casa di Croisset e vi si chiuse per quattro anni e otto mesi di lavoro inflessibile, di giorno come di notte, isolatissimo se non per le rare visite degli amici più cari. E lavorando a quella che in una lettera lui chiama “quella meccanica complicata con la quale arrivo a fare una frase” vi partorì uno dei capolavori della letteratura occidentale, considerato l’iniziatore del romanzo realista.
Sarà proprio Maxime Du Camp, divenuto nel frattempo direttore di una importante rivista letteraria, la Revue de Paris, a pubblicare a puntate il romanzo, dal 1 ottobre al 15 dicembre 1856, suscitando uno scandalo che porterà addirittura a un famoso processo.

Per rendersi conto di quanto impegno sia costata a Flaubert la redazione del romanzo, si può visitare uno sito ricchissimo di materiali, che credo non abbia eguali in italiano – a dimostrazione di come alcuni paesi sappiano valorizzare la loro cultura. In questo sito si trovano le riproduzioni di tutti i manoscritti del romanzo (qui ad esempio le prime pagine) nonché tutti i piani di stesura di Flaubert, vere e proprie sceneggiature – e molto altro ancora. Una miniera di meraviglie, nella quale si possono passare ore.
Basta vedere anche solo alcuni di questi fogli per intuire l’immenso sforzo di continua riscrittura e sistemazione che ha richiesto a Flaubert la ricerca della sua perfezione. Una lezione straordinaria, maturata inizialmente nell’apparente inattività e nella noia.

Può essere difficile viaggiare con un artista. Può essere difficile essere vicini a un artista, perché spesso, e a volte a lungo, un artista può dare l’impressione di una assoluta immobilità. Ai partner, agli amici, a tutte le persone care vicine a un artista è talvolta richiesta la paziente saldezza d’animo di sopportare e sostenere la sua stessa attesa: un compito ancora più difficile, che richiede grandezza del cuore e amore immenso – delle quali cose bisogna, da artisti, sapere essere grati.

Nota: il viaggio in Egitto, Nubia, Palestina e Siria di Maxime Du Camp e Gustave Flaubert ha anche un altro mistero che lo accompagna. Ne parleremo presto. [Edit: trovate qui il seguito di questo post]

 

Share

Il sito utilizza cookie proprietari tecnici e consente l'installazione di cookie di terze parti. I cookie non sono utilizzati dal sito per fini di profilazione. Cliccando su OK o continuando la navigazione, l'utente accetta l'utilizzo dei cookie di terze parti. Per maggiori informazioni, è possibile consultare l'informativa completa

Questo sito utilizza i cookie per fonire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o clicchi su "Accetta" permetti al loro utilizzo.

Chiudi