Nel suo intervento a Camera con Vista Francesca Lazzarini ha ricordato a tutti con passione e con numerosi esempi che non dovremmo mai dimenticare quanto il nostro agire sia sempre anche politico. Purtroppo viviamo tempi nei quali la parola politica viene inesorabilmente associata alle peggiori mediocrità, quando non a perversioni e disastri. Credo, con Francesca, che dovremmo tornare – o cominciare – a pensare che, come lei dice anche qui, la politica abbia a che fare con il bene di tutti noi, sia come comunità che come individui. Ogni artista, come chiunque altro, dovrebbe chiedersi in che modo il proprio lavoro porti qualcosa agli altri e alla società. Non si tratta, credo, di dover essere a tutti i costi utili, perché a volte è proprio con gesti inutili che riusciamo a dare qualcosa. Ecco, raccogliere l’invito di Francesca Lazzarini al riflettere sulle ragioni del proprio fare è già un ottimo passo per iniziare.
L’intervento di Mirko Smerdel, nel post precedente, è l’assist perfetto al mio contributo per il blog, che è una sorta di distillato rimescolato della lecture tenuta a Bergamo per “Camera con Vista”. Come Just like Arcadia, il lavoro portato avanti dai Discipula – e da artisti come Alessandro Sambini e The Cool Couple che scriveranno dopo di me – è esemplare del tipo di ragionamento che può – e, a mio avviso, deve – essere condotto oggi sulle immagini e con le immagini. Un ragionamento che, senza paura, definirei politico, se per politica intendiamo quell’insieme di pensieri e azioni volte al bene di una collettività.
Che le immagini abbiano un potere dirompente, capace di sovrastare addirittura il peso delle parole, è cosa assodata. Ricordavo alla Gamec Possession, il poster che Victor Burgin, in occasione di una collettiva a Newcastle nel 1976, aveva attaccato in 200 copie sui muri della città. La fotografia di una coppia benestante, ritratta in un momento di effusioni, era accompagnata da due frasi: la prima diceva “cosa significa per te possesso?” e la seconda “il 7% della nostra popolazione possiede l’84% della nostra ricchezza”. E ancora più in piccolo The Economist e la data. Intervistate nei giorni seguenti alla diffusione del poster, la maggioranza delle persone dichiarava di non aver colto il contenuto politico del manifesto. Erano inoltre state tanto colpite dall’immagine che avevano letto la prima domanda come “cosa significa per te passione?”, confondendo possession con passion.
Ciò che è meno scontato è che così come non si può più essere naïve nel fare gli artisti, non si può più nemmeno rimanere neutrali. Il modo in cui oggi il potere viene esercitato, e il ruolo giocato dalle immagini in tale esercizio, ha ripercussioni così profonde sull’immaginario collettivo che chiunque operi nel campo del visivo non può permettersi un atteggiamento impassibile o indifferente.
Non solo, come diceva Fabrizio Bellomo, l’analfabeta di oggi è colui che non sa leggere le immagini (e quello del futuro colui che non sa leggere le liste) ma concordo con Mirko Smerdel quando afferma che per combattere l’ideologia non basta più neanche saper compiere questo atto di decifrazione. E a maggior ragione questo è vero per chi le immagini non solo le legge ma le produce o comunque ci lavora.
Se nel 1983 Vilém Flusser suggeriva di sfruttare i margini di libertà che sfuggono al controllo esercitato da programmi e apparati nell’utilizzo della fotografia, in anni recenti Alain Badiou ha scritto: “It is better to do nothing than to contribute to the invention of formal ways of rendering visible that which Empire already recognizes as existent” (“È meglio non fare nulla che contribuire all’invenzione di modi formali di rendere visibile ciò che l’Impero riconosce già come esistente”).
E le strategie per seguire questi consigli sono diverse: sovvertire l’uso che di certe immagini fa il potere per generare nuovi significati, utilizzare l’arte come miccia per innescare processi nella vita reale, immaginare nuovi possibili modi di vivere, ricordare semplicemente che quello dato non è l’unico assetto di mondo possibile.
Penso sia importante pensare al nostro lavoro (laddove nostro significa di artisti, curatori, critici, corniciai, stampatori, allestitori, trasportatori ecc… di tutti, insomma) come a un qualcosa che ha valore politico. E per politica, ricordo di nuovo, intendo ovviamente quell’insieme di pensieri e azioni volte al bene della comunità. Penso sia importante domandarsi ogni volta: perché faccio quello che faccio?