Lo confesso: vado a vedere poche, pochissime mostre. Le ragioni di questa mia scelta sono articolate e anche caratteriali, ma se dovessi riassumerle in una battuta direi questo: io non credo che per un artista sia necessità primaria l’essere informatissimo. Credo che un artista debba saper coltivare anche forme particolari di isolamento – non in cima alla torre d’avorio, intendiamoci: piuttosto, magari, nei suoi sotterranei e sui suoi balconi. Vedo ogni giorno i danni che il cosiddetto information overload produce nei più giovani (dovuto alla straripante facilità con la quale il web offre accesso alle informazioni, spesso solo apparente visto che la vicinanza fisica con le opere resta insostituibile, anche per la fotografia) e la fatica che bisogna spendere per convincere i più giovani interlocutori a non farsi schiacciare dalla sensazione che spesso li affligge: quella del “questo è già stato fatto”, cosa della quale oggi è così facile accorgersi e che al contrario a mio parere è una risorsa. Ne riparleremo.
Fondazione Fotografia di Modena ci ha abituato negli anni a mostre di alto livello, curate con attenzione e allestite con modalità ispirate a tendenze espositive avanzate ed eleganti. In attesa dei lunghi lavori per la realizzazione della sede definitiva, da qualche tempo le mostre vengono presentate negli spazi del Foro Boario – uno spazio ampio e bello, forse non così semplice da gestire per la fotografia ma che comunque viene utilizzato, mi pare, al meglio.
Stop Time, la mostra di Hiroshi Sugimoto curata da Filipo Maggia, che resterà aperta fino al 7 giugno, presenta il lavoro di uno degli autori più potenti del nostro tempo, che in gran parte dei sui lavori fotografa le stesse cose che milioni di turisti fotografano ogni giorno: distese marine, statue di cera e diorami nei musei, gli interni dei teatri, monumenti architettonici. Il punto, dunque, non è il “cosa” fotografa, ma il molto più intrigante “come”.
Uno dei tratti fondamentali che distinguono gli artisti dalle altre persone è la valorizzazione della componente ossessiva che in vario modo abita ogni essere umano. Negli artisti questo spesso produce attitudini seriali nella realizzazione dei propri lavori e cure maniacali per i dettagli nella produzione delle opere. Ecco, Hiroshi Sugimoto è un assoluto campione in questo, e credo che parte dell’enorme successo che si è conquistato risieda nella sua capacità davvero estrema di riuscire a tenere sotto controllo ogni minimo dettaglio di quello che fa – a partire dalla realizzazione delle sue immagini, che lo porta ad esempio a scegliere con precisione quali film debbano essere proiettati nei teatri e nelle sale da cinema, che fotografa con una posa che dura quanto il film stesso, del quale così l’unica traccia che resta è quella di un magnifico lattiginoso biancore. Il fotografo che è in me si dice un po’ ironicamente che questa scelta è dovuta anche all’avere in questo modo la possibilità di non annoiarsi durante la realizzazione dello scatto: il fotografo d’architettura ha spesso con sé un libro da leggere durante le talvolta lunghissime esposizioni – Sugimoto, mi piace pensare, si nutre dei capolavori del cinema che scorrono sullo schermo mentre l’otturatore è aperto.
Aggiungo anche che, a certi livelli, essere così ossessivi può portare ad assumere atteggiamenti arroganti o che sembrano tali. È un tratto tipico dello star system, che perlopiù di solito mi sembra più una forma di difesa dalle pressioni interne ed esterne che un artista di quel calibro deve sostenere piuttosto che un delirio narcisistico. Credo dunque che certe affermazioni che mi hanno riferito dello stesso Sugimoto, quali quella di considerarsi l’ultimo grande fotografo della storia, vadano accolte con qualche leggerezza.
La vertigine di precisione e di attenzione che ci comunicano le opere di Hiroshi Sugimoto si esprime anche nei dettagli. È forse per questo che visitando la mostra, ricca di opere che già conoscevo bene, mi sono trovato a osservare con attenzione le scelte fatte per le cornici, delle quali offro qui sotto una breve selezione visiva. Premiano questi lavori anche le scelte di allestimento, di illuminazione scenografica e di rarefazione delle quantità di opere esposte, che produce una grande pulizia di percorso – e immagino che anche su questi aspetti l’artista sia intervenuto. La mostra presenta anche una bellissima serie di monografie dedicate alla sua opera – a testimonianza di una stagione, quella attuale, nella quale l’attenzione per il libro fotografico vive un revival che sta producendo risultati affascinanti, in particolare tra gli artisti più giovani.
La sorpresa migliore, tuttavia, che questa mostra mi ha dato l’ho avuta dopo essere tornato a casa, nel momento in cui ho iniziato a sfogliare il catalogo. La ragione non sta solo nel fatto che pur avendo un prezzo abbastanza accessibile (34 euro in mostra) il volume è ben fatto e soprattutto ben stampato: quello che mi ha colpito è il lungo testo firmato dallo stesso Sugimoto. È molto raro che un artista sia in grado di scrivere in modo così dettagliato e chiaro del proprio lavoro, narrandone la genesi e la realizzazione, individuandone perfino le ragioni profonde. Questo testo da solo vale l’acquisto del libro, perché è una rara lezione di consapevolezza e di profondità, oltre che un chiarimento deciso riguardo al suo lavoro, che vuole giustamente tendere all’assoluto in ogni aspetto, grande o minimo che sia.
Questo testo chiarisce quanto il lavoro di Sugimoto si sia progressivamente spostato verso l’analisi e la dichiarazione di quelli che sono i fondamenti stessi della visione fotografica. I suoi lavori parlano della fotografia stessa, e non si può non vedere qui un collegamento col lavoro di un altro grandissimo, Thomas Ruff, che da tempo, forse da sempre, produce lavori che analizzano quella che lui stesso ha definito The Grammar of Photography. In tempi di proliferazione di immagini, il lavoro di questi artisti ci consegna riflessioni decisive con opere che indagano le ragioni stesse del fare fotografia.