Luca Panaro – La fotografia tra ostracismo e vanità

Il 30 aprile scorso è stata la volta di Luca Panaro nella serie di incontri organizzati con la GAMeC di Bergamo. Panaro è andato con estrema chiarezza dritto al punto, proponendo sia esperienze personali che riflessioni più ampie riguardo alle persistenti difficoltà del rapporto tra mondo dell’arte e fotografia, individuando da un lato i ritardi culturali e le approssimazioni degli addetti ai lavori riguardo alla fotografia, e dall’altro evidenziando, con a tratti brutale evidenza, le ingenuità dell’approccio alla questione da parte di tanti fotografi – tema, quest’ultimo, del quale credo non si discuta ancora abbastanza.
Gli appunti che ci vengono proposti riassumono i punti sui quali si è centrato il suo ampio discorso, proponendo anche alcuni esempi di lavori che pur essendo molto orientati artisticamente trovano tuttavia, per sua diretta esperienza, ancora difficoltà ad essere accettati, ad esempio, dalle riviste d’arte.
Aggiungo di avere molto apprezzato il suo invito finale – rivolto soprattutto ai giovani in risposta ad alcune domande – a prendersi dei rischi, a procedere sperimentalmente evitando terreni troppo sicuri (terreni tra l’altro già fin troppo solidamente occupati) e ad accettare anche la possibilità del fallimento. Forse non ricordiamo mai abbastanza la ricchezza dell’esperienza del fallimento.

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La fotografia tra ostracismo e vanità

Da una parte prendo atto dell’esclusione dalla comunità artistica di quegli autori “colpevoli” di utilizzare il mezzo fotografico in modo troppo puro. Dall’altra noto la crescente ambizione dei fotografi di essere parte del sistema dell’arte a tutti i costi. Tra questi due eccessi forse risiede la complessità della fotografia italiana, che oggi tenta faticosamente di emergere dalla palude dell’indistinto.

Ostracismo: ovvero quando il mondo dell’arte mette al bando la fotografia
Dal 2001 scrivo su riviste d’arte. Spesso propongo di recensire mostre di artisti che lavorano con la fotografia. Questo è quello che mi sento rispondere ormai da quindici anni: «Ho letto il progetto e devo dirti che è veramente molto interessante; purtroppo però non saprei come contestualizzarlo all’interno della rivista visto che è materia prettamente fotografica». Perché le riviste d’arte non si occupano di fotografia? Perché il sistema dell’arte è ancora in imbarazzo di fronte ad opere puramente fotografiche?

Vanità: ovvero quando il fotografo si compiace delle proprie capacità tecniche
Nel 1859 per Charles Baudelaire la fotografia era la palestra dei pittori mancati. E oggi? Visitando gli stand di alcune fiere, dopo 156 anni, verrebbe da pensare che Baudelaire non aveva tutti i torti. E non è solo colpa degli “autori”, piuttosto di galleristi e collezionisti che li sostengono, digiuni di fotografia a tal punto da apprezzare soltanto le immagini che più si avvicinano alla loro vera passione, la pittura. E così che appese alle pareti delle più disparate gallerie vediamo fotografie dalle suggestioni varie, spesso con richiami al romanticismo, al realismo, all’impressionismo… mai alle specificità della fotografia!

 

Quali altre prospettive per la fotografia?

Olivo Barbieri, Alps - Geographies and People #2, 2012

Olivo Barbieri, Alps – Geographies and People #2, 2012

La sparizione del punto di vista
Osservando la ricerca più recente di Olivo Barbieri notiamo la sparizione del punto di vista, l’aggiramento delle regole della prospettiva, la ricerca di un “punto-di-essere” che si oppone al “punto-di-vista”, come sostiene Derrick de Kerckhove, cioè qualcosa di più fluido, che va oltre rispetto a ciò che vedo. Oggi infatti possiamo “sentire” oltre ciò che vediamo, possiamo sviluppare più che vedere. Questo è il grande salto in avanti che ci propongono le nuove tecnologie e i loro linguaggi. Quello che nelle immagini fotografiche di Barbieri è segnato dal «ritorno al disegno, alla forma scarnificata delle cose, allo schizzo che immagina il progetto». Come è possibile apprezzare nelle immagini più recenti della decennale serie fotografica site specific_. Anche in Alps Geographies and People (2012), Barbieri ci offre una visione, come lui stesso dice, vista dagli scalatori: «cime, precipizi, crepacci, miraggi e allucinazioni nelle geografie. In queste immagini è tutto vero. Le proporzioni e le forme sono reali. Anche le persone  e la posizione in cui si trovano sono reali». Eppure ci vengono mostrate come se fossero “solid color”, cartine mute della geografia che permettono di rappresentare sinteticamente  una forma. In questo modo l’artista retrocedere a una forma primigenia delle montagne, che si mostrano piatte, prive di riferimenti prospettici.

 

Fabio Sandri, Io, 2003

Fabio Sandri, Io, 2003

Il materiale fotografico
Nell’arte di Fabio Sandri invece si riscontra un modo diverso di intendere la fotografia. Nell’opera intitolata Io (2003) il corpo dell’artista è registrato sulla carta con la tecnica del Fotogramma, cioè proiettando sul materiale fotosensibile il volume tramite una luce posta allo zenit. L’alone chiaro che si scorge è il profilo della schiena e della testa, le macchie più chiare al centro sono i piedi che toccano la superficie della carta. È una rappresentazione della figura umana anomala, zenitale, “precipitata”, che l’occhio non avrebbe mai potuto registrare. I bianchi corrispondono al contatto del corpo con la carta; i neri mostrano l’assenza di contatto quindi l’esposizione totale alla luce; i grigi invece indicano le rifrazioni dello spazio circostante, che consente alla luce di entrare anche dentro l’ombra. È la combinazione di grigi a dare l’idea di volume e non di silhouette, di presenza plastico-spaziale. Questo aspetto distingue sostanzialmente il lavoro di Sandri dagli esperimenti off-camera già noti alla storia della fotografia. Quest’ultimi, anche quando suggeriscono una tridimensionalità, sono riferiti solitamente all’oggetto, in Sandri è la verticalità dello spazio ad essere indagata, rigorosamente in scala 1:1.

 

Carlo Zanni, The Fifth Day, 2009

Carlo Zanni, The Fifth Day, 2009

I flussi di dati
Dall’inizio degli anni Duemila la pratica artistica di Carlo Zanni prevede l’uso di dati prelevati da Internet per creare esperienze di coscienza sociale basate sul trascorrere del tempo. Nell’opera intitolata The Fifth Day (2009), l’artista mostra dieci fotografie da lui realizzate in Egitto che descrivono una corsa in taxi; disposte in sequenza, cambiano ogni volta che si ricarica la pagina web da cui sono fruibili, oppure quando i dati a cui sono collegate vengono modificati. Ogni fotografia è dinamica (anche se statica in chi la guarda), ovvero utilizza dati provenienti da server di terze parti, alcuni dei quali derivati dall’utente stesso e dal suo collegamento a Internet del momento (come il nome della città scritto sull’insegna di un negozio: “Rome” se collegati da Roma, “Beijing” da Pechino, “Redmond” dallo stato di Washington, “Temperley” dall’Argentina). In altri casi la dinamicità dell’immagine è data dagli ultimi collegamenti ricevuti: i colori degli abiti appesi in un mercato di Alessandria d’Egitto fotografato dal guard rail mutano in base agli indirizzi IP degli ultimi dieci utenti. L’operazione si ripete per ciascuna immagine, ottenendo un’opera che risente degli strumenti utilizzati per crearla, cioè effimera, soprattutto quando i dati che l’opera utilizza come materia prima non sono sotto il diretto controllo dell’artista. La maggior parte delle opere di Zanni smettono di funzionare a distanza di tempo dalla loro realizzazione, immergendosi così nella realtà, subendo la stessa sorte di un oggetto di uso comune. Questa precarietà dell’opera, se accettata (non solo dall’artista), diviene uno degli elementi caratterizzanti la ricerca contemporanea.

Conclusione

La cura ai “mali” della fotografia (ostracismo e vanità), punto di partenza di questa breve riflessione, trovano la giusta cura nella scuola, nella formazione, nell’educazione all’immagine, nella costruzione di quella consapevolezza critica necessaria a cogliere le peculiarità del mezzo, senza piegarlo, come spesso accade, al gusto di un’altra epoca. Questo porta alla creazione di nuovi canali di distribuzione per l’arte, aggiornati al nostro tempo, capaci di veicolare soprattutto le idee di un autore, non solo i loro manufatti. Come dice Brian Eno: nel futuro non si compreranno i lavori di un artista; si comprerà un software capace di ricreare il suo modo di vedere.

 

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