Quando ho chiesto a Matteo Cremonesi e a Enrico Smerilli di mandarmi un loro testo che riassumesse quanto avevano presentato del loro lavoro, sia individuale che in duo, nella bella serata che hanno condotto all’interno degli incontri di Camera con Vista presso la GAMeC di Bergamo, non mi aspettavo che di testi ne mandassero tre, uno più intenso dell’altro.
Cremonesi e Smerilli hanno usato in questi testi l’escamotage di intervistarsi l’un l’altro, producendo così delle liberissime interazioni, specchio di conversazioni tra loro che durano probabilmente da anni. Se in pubblico sono apparsi molto diversi l’uno dall’altro – asciutto e concentrato Smerilli, mentre spesso quasi torrenziale Cremonesi – in questi testi le parti si riequilibrano, facendo anche intuire quanto possano ben funzionare i loro percorsi, a tratti paralleli e in altri casi collettivi. Credo che la forza del loro lavoro ne esca con chiarezza e sincerità – che è quello che ci auguriamo sempre dagli artisti.
Qui di seguito la prima intervista, qui la seconda e qui la terza.
INTERVISTA A MATTEO CREMONESI, di Enrico Smerilli
ES / Il Soggetto/oggetto del tuo lavoro sembra essere quotidiano, qualcosa di normalmente trascurato, di insignificante e comune.
MC / Credo il mio lavoro possa raccontarsi come una pacifica registrazione di ciò che è costantemente presente, vicino, quotidiano, apertamente apparentemente irrilevante. Nel mio lavoro c’è molto poco da vedere, non ci sono nuove immagini ne azioni, ma solo attenzione a ciò che vediamo costantemente senza guardare.
ES / Eppure questi oggetti che fotografi sono legati fra loro da delle caratteristiche. Con quale criterio scegli un soggetto piuttosto che un altro?
MC / Ciò che mi spinge a scegliere di lavorare su un oggetto è la sua capacità di incarnare un carattere “normalizzante”, di essere cioè, contemporaneamente alla sua funzione, un soggetto/oggetto di genere .
ES / Mi spieghi che intendi con “oggetto di genere”?
MC / Intendo categorie di oggetti che hanno in comune proprietà formali essenziali e differiscono per caratteristiche non essenziali. Oggetti il cui disegno o forma prima ancora di assolvere a una funzione precisa presentano nel loro progetto delle caratteristiche capaci di metterli in relazione ad un progetto produttivo-semiotico atto a produrre un disciplinamento delle esperienze.
ES / Dalle tue immagini emerge uno sguardo che potremmo definire “contemplativo”.
MC / Abitando lo spazio l’oggetto crea un’architettura, si dispone fra altri elementi, li cambia o ridescrive, formalizza lungo la sua superficie e con il suo peso una sorta di tensione, crea una sorta di tono. Descrive un suo esserci, inizia un suo “stare”.
Rapportarsi all’oggetto richiede l’organizzazione di una respirazione, di uno sguardo, un modo per muoversi attorno a questo, farne esperienza, trarne un ascolto… fino alla sua registrazione. Occorre l’invenzione di un’attenzione particolare anche nell’operare.
ES / Il tuo lavoro mi fa pensare al fatto che ogni oggetto e corpo può essere letto come pura superficie, statica, priva di movimento.
MC / Quando ero piccolo, d’estate in montagna, passavo interi pomeriggi a scorrere il paesaggio attraverso il binocolo di mio padre. L’ottica del binocolo appiattiva i diversi piani rendendo la realtà un’unica superficie piatta, porzionata, in qualche modo capace di escludere l’idea di movimento. In fondo credo di non aver mai voluto smettere di guardare da quel binocolo.
ES / Parlando di paesaggio, precedentemente a questo ciclo di lavori ti sei occupato a lungo di fotografia paesaggistica, quanto ha influito quest’esperienza nel tuo lavoro?
MC / Moltissimo, lavorare sul paesaggio impone un tipo di ascolto degli spazi che si desiderano registrare non dissimile da una respirazione. L’immersione in un ambiente naturale, l’osservazione e il confronto con questo ambiente mi ha messo nella condizione di cercare delle strategie visive che rendessero quell’esperienza in qualche modo avvicinabile.
Credo le fotografie di paesaggio non riguardino solo la natura, ma attraverso azioni quali la ripetizione, la differenziazione, la composizione, raccontino la nostra presenza di fronte ad essa. Lavorando sul paesaggio ho imparato a portare la ma attenzione sui particolari, ripetendoli, impaginandoli, nascondendoli. Questo era un modo per poter trattare un apparenza altrimenti troppo vasta, troppo travolgente, una ricerca di razionalizzazione dell’impressione… Una strategia attraverso la quale tentare di diminuire quella distanza che la superficie delle cose mantiene sempre con l’osservatore.
In parte, o interamente, l’eco di questa esperienza si può intuire nelle disposizioni presentate in tutti i miei lavori successivi.
ES / Con le tue serie si assiste all’esibizione di un circuito di sforzo che porta spesso all’esaurimento dell’impressione del soggetto, lo sguardo ripetutamente concentrato sulla superficie crea una sorta di sospensione, di pausa.
MC / Mi interessa tentare di provocare una sorta di esaurimento o noia dello sguardo. Questa continua, ripetuta, richiesta di attenzione su qualcosa di molto semplice e conosciuto credo possa, similmente a un perpetuo gesticolare tra le mani di un intenzione rimandata, realizzare nell’osservatore una sorta di silenzio o pausa in cui intuire la capitolazione di ogni evento.
ES / Nel tuo lavoro sembra non esserci narrazione, eppure la presenza del tempo d’osservazione appare dominante. Un tempo che si prolunga e si dilata immagine dopo immagine lungo il corso della superficie: un durare o un trascorrere, che penetra negli intervalli o sospensioni che crei per mezzo dell’impaginazione.
Puoi parlarmi della noia nella tua pratica e del su suo legame con il concetto paradossale di osservazione ?
MC / L’esperienza della noia è importante nel mio lavoro. La noiosità di cui parlo è qualcosa di semplice di cui ognuno ha fatto esperienza nella vita quotidiana. Una qualsiasi attività che diventa noiosa tanto da rallentare la percezione del tempo che ci sembra non passare mai.
Le immagini, le forme, gli argomenti, le sensazioni si ripetono assomigliandosi sempre più fino a perdere contenuto e senso. A partire da questa capitolazione di ogni rapporto narrativo, da questa delusione – esclusione di ogni evento, inizia un processo dello sguardo che trova nella semplice constatazione e registrazione di ciò che c’è il suo fulcro e in quest’impossibilità di parola, di racconto, una forma vertiginosa di respirazione.
ES / Non ci viene mai, (o quasi mai), garantita la soddisfazione visiva di vedere il soggetto nella sua interezza, non ci sono riprese esplicite, e tuttavia ogni difetto, imperfezione, riflesso o traccia sono registrati con imparziale attenzione. In questo paradosso di rivelare al tempo stesso tutto e nulla c’è qualcosa di forzato, un senso di oscillazione tra l’erotico e il clinico enfatizzato dalla ripetizione ossessiva delle diverse parti.
MC / Mi piace l’esperienza (o perlomeno l’idea) d’isolamento radicata nell’atto di “scegliere”. La distanza dal resto del mondo che s’impone scegliendo qualcosa e omettendo visivamente il resto rende l’incontro con ciò che si è scelto quasi segreto. Un’immagine o frammento d’immagine sottratto al rumore dell’ambiente.
ES / Ti sei diplomato nel Dipartimento Multimediale dell’Accademia di Belle Arti di Brera cui hai fatto seguire nella stessa accademia un biennio specialistico in fotografia, credi questo percorso abbia avuto un’importanza di qualche tipo per il tuo lavoro?
MC / L’esperienza accademica è stata indubbiamente molto importante, in particolar modo lo è stato l’incontro con alcuni artisti e docenti come Paolo Rosa, Tullio Brunone, Alberto Garutti, Mauro Folci, Alessandra Spranzi, Luca Panaro, Riccardo Notte, Antonio Caronia e Franco Berardi, le cui lezioni hanno profondamente segnato il mio percorso umano e artistico arricchendolo con una consapevolezza inattesa.
ES / Sembri capace di avvalersi di riferimenti culturali importanti, una lettura del presente per mezzo degli oggetti che chiama in causa temi e discipline apparentemente molto lontani dal lavoro fotografico, cosa succede allo spettatore che non conosce tutti i riferimenti chiamati in causa dal tuo lavoro?
MC / Niente, non succede nulla, credo le immagini abbiano per mezzo di un loro statuto interno la capacità di divenire qualcosa di diverso di fronte a ogni spettatore. Intendo i miei lavori come presenze capaci di intrattenere diversi gradi di lettura.
ES / Mi viene in mente un piccolo romanzo che mi hai prestato qualche tempo fa, Anulare di Yoko Ogawa, che esplora con una scrittura sobria e precisa il rapporto tra gli esseri umani e gli oggetti quotidiani.
MC / È un libro che mi ha colpito molto, al quale ripenso spesso.
http://matteocremonesi.org/
info: matteo.cremonesi@yahoo.it