Il testo di Mirko Smerdel che segue queste mie poche righe descrive a fondo uno dei lavori che ha presentato negli incontri di Camera con Vista presso la GAMeC di Bergamo. Realizzato dal collettivo Discipula, del quale Smerdel fa parte, mi pare esempio perfetto della lucidità con la quale le nuove generazioni sono in grado di affrontare la questione dell’immagine. La profondità di analisi e la ricchezza politica di questi lavori dimostrano soprattutto, a mio parere, che abbiamo ormai a che fare con figure a tutto tondo, perfettamente mature e consapevoli di quello che fanno, e che ormai sono rallentati solo dalla pochezza di attenzione loro riservata da un panorama – italiano ma non solo – estremamente conservatore e in forte ritardo intellettuale rispetto alle riflessioni molto concrete che questi artisti propongono. La stessa abitudine a essere definiti giovani è una maledizione che tocca loro sopportare – ma è forse l’unica ingenuità dalla quale si devono ancora liberare essi stessi: speriamo succeda presto.
Le nostre vite e la nostra quotidianità sono sempre più immerse in un oceano di informazioni. Così, i nostri dati e soprattutto le nostre personali memorie, diventano parte di flussi digitali di cui diventa sempre più difficile controllarne sia origine che meta.
In questo scenario la riflessione intorno all’immagine fotografica assume particolare importanza. La fotografia, in quanto strumento di registrazione di informazioni visive, ha infatti avuto fin dalla sua nascita il compito di raccogliere le memorie delle persone e di riflesso la capacità di poter “scrivere” delle storie (se non addirittura la Storia). Uno strumento di scrittura molto potente, perché agisce direttamente attraverso stimoli visivi diretti.
Parlerò qui di un progetto specifico, “Just Like Arcadia” (JLA), anche se invito il lettore a farsi un giro sul nostro sito (www.discipula.com) e vedere i nostri lavori, in quanto le tematiche discusse in questa sede sono al centro della ricerca di Discipula, il collettivo artistico con il quale sempre più mi sto immedesimando.
Forme che seguono una ideologia
JLA descrive la disintegrazione di un’immagine digitale attraverso la manipolazione del suo codice jpg. L’immagine jpg in questione è un rendering del “Garden Bridge”, progetto architettonico per un ponte pedonale desiderato dall’attrice Joanna Lumley e concepito dallo studio di Thomas Heatherwick. Il progetto, ancora in attesa di via libera per la sua costruzione, è da diversi anni oggetto di numerose critiche. Nonostante l’iniziale promessa di realizzazione attraverso fondi interamente privati, è infatti emerso che 60 dei 175 milioni di sterline previsti sarebbero dovuti essere pagati dal governo e dunque dai contribuenti.
Un rendering può essere considerato come una specie di fotografia “perfetta”, capace di soddisfare in pieno l’idea di chi la realizza. Un’immagine ideale, in quanto non ha più bisogno di nessuna attinenza ad un oggetto reale, esistente, ma è pura costruzione linguistica.
In questo caso specifico (ma significativo) il rendering è un’immagine che veicola una visione del futuro conforme e corrispondente al pensiero e all’immaginazione dell’industria immobiliare. Questa visione propone un’idea post-liberista di paesaggio urbano che naturalmente non tiene minimamente conto delle problematiche di housing sociale ma tantomeno di urbanistica di città come Londra (ma avrei qualcosa da dire anche riguardo Milano), soffocate dalla speculazione e da dinamiche di gentrificazione sempre più insostenibili.
L’immagine diventa puro stimolante sensoriale atto a vendere una determinata idea di futuro.
Quello che abbiamo cercato di fare con JLA è stato di potenziare al massimo, attraverso uno stratagemma tutto sommato semplice (la corruzione di un’immagine digitale), questa componente ideologica costitutiva dell’immagine fino a renderla abbastanza distante da poterla vedere sotto una nuova luce.
Il codice jpg di questa immagine del ponte è stato infatti progressivamente “corrotto” attraverso l’inserimento di alcuni versi tratti dal poema La Arcadia, Prose e Versi scritto dallo scrittore spagnolo Felix Lope de Vega nel 1598.
Le parole di Lope de Vega descrivono un paesaggio idilliaco, così perfetto da sembrare irreale, e sembrano risuonare perfettamente con la visione proposta dall’immagine del progetto per il Garden Bridge.
Questa strategia, presente nella maggior parte dei nostri progetti, si fonda proprio su un cambio di prospettiva, ovvero la realizzazione di una nuova “distanza” che ci permetta di svelare i meccanismi che stanno dietro alla costruzione di un immagine per sabotarne il messaggio.
L’immagine sognata del neoliberismo
Quello che risulta visibile da questa analisi e da tutto il lavoro di JLA è una nuova soluzione formale (derivata da progressi tecnologici) di una vecchia strategia di propaganda che pone l’immagine al centro di un meccanismo di produzione di desiderio e di consumo.
Si sta avverando un fenomeno distopico che rappresenta simbolicamente (ma neanche tanto) l’esatto contrario dell’utopia socialista marxista.
L’utopia socialista prevedeva l’abolizione della grande proprietà borghese in difesa dell’interesse della collettività e col fine di garantire a tutti pari dignità e opportunità: un lavoro, una casa, istruzione, sanità per tutti.
Il post-capitalismo (lo chiamo così per comodità) abolisce lo stato sociale e la microproprietà individuale per difendere il monopolio di megaproprietà multinazionali, corporative e astratte. Il tutto in nome di una tecnologia capace di gestire la società in maniera solo apparentemente neutrale.
Attraverso un perverso meccanismo che ci fa credere di acquisire nuove forme di partecipazione, nuove libertà e indipendenza, ci ritroveremo presto a non possedere una casa (Air-Bnb le possederà per noi), non possedere più un’automobile (faremo car-sharing o ci affideremo a piattaforme come Uber), non avere più un informazione indipendente (perché tutto dovrà corrispondere alla censura del gradimento, dei “like”), non possederemo più danaro (sostituito da BitCoin), non possederemo più degli hard disc o altri devices per la raccolta dei nostri dati, poiché le nostre memorie e i nostri ricordi saranno su delle “nuvole” (Cloud storage) e così via… facendo sì che le nostre vite possano essere permanentemente monitorate, verificate, capitalizzate.
Ma torniamo alle nostre amate fotografie. Nelle condizioni sopra descritte sarà impossibile non solo stabilire la proprietà intellettuale ma anche seguirne i percorsi e capire che fine faranno le nostre immagini. Con il cloud storage infatti assistiamo ad una totale dematerializzazione del formato, che non è più un oggetto bensì una forma astratta che vive nella rete, viaggiando per strade che ci sono per lo più ignote.
Più si smaterializza il formato, più la proprietà intellettuale diventa meno chiara e arriverà presto il tempo in cui anche le fotocamere “professionali” saranno connesse in rete per archiviare immediatamente i files (i cellulari già lo fanno), ma dove? perché? e quanto ci costerà questa cosiddetta condivisione in termini di libertà e privacy?
La fragilità del digitale e la fragilità del futuro
La nuova questione che nasce con tutto questo discorso riguarda – oltre alla proprietà intellettuale – la proprietà della memoria: un problema sociale e politico.
Con l’età moderna il potere di conservare la memoria è stato storicamente affidato agli Stati: i musei e gli archivi nascono e si diffondono con la rivoluzione industriale, ed è lo Stato che decide cosa deve essere conservato e cosa deve essere di libero accesso e come.
Ma in questi ultimi anni stiamo registrando un fenomeno nuovo e per certi versi inquietante: la raccolta dati, archiviazione (e riutilizzo) di dati personali da parte di grandi aziende multinazionali. In altre parole, stiamo parlando della proprietà della memoria collettiva.
Questa è a mio parere una questione importante tanto quanto se non più di altre problematiche riguardanti la raccolta, il monitoraggio e la vendita di dati personali a scopi commercial (Big Data).
Ovviamente ciò che queste aziende fanno con i nostri dati è cruciale, così come il fatto che siano completamente libere da qualsiasi controllo, ma ancora più rilevante è il fatto che delle entità private ed a noi sostanzialmente estranee abbiano il potere di preservare la nostra memoria collettiva, e pertanto di (ri)scrivere la Storia.
In altre parole se fino ad oggi, in maniera più o meno democratica, gli stati si proponevano di salvaguardare la memoria e la storia dei territori, in futuro questo compito potrebbe essere affidato a delle corporation.
La memoria (non solo fotografica) si sta quindi separando dal supporto fisico (libro – disco – stampa – hard disc) per diventare qualcosa di liquido, di cui non siamo più proprietari e che non possiamo controllare.
In questo scenario non basta più semplicemente saper leggere le immagini per poterne riconoscere il loro messaggio ideologico intrinseco, ma occorre difendere il valore pubblico e universale di quelle immagini e quei dati che conservano la nostra memoria privata e collettiva.