Non guardare niente, e ricordare tutto

Una delle cose che mi sconcertano della storiografia moderna è il suo disinteresse per il dato biografico. Intendiamoci: sono uno strenuo sostenitore di un approccio quanto più scientifico possibile allo studio della storia, e credo ad esempio che purtroppo in Italia si sia cominciato da poco tempo a occuparsi in questo modo della fotografia. Un approccio scientifico non significa però, a mio parere, escludere quasi completamente le vicende personali, e in fondo le emozioni, degli autori o artisti dei quali ci si occupa.

Non sono uno storico della fotografia, anche se ne sono molto appassionato, dunque credo di potermi permettere anche escursioni in territori un po’ più fluttuanti e instabili. In particolare, sono sempre molto attratto dalle vicende umane delle persone che la storia della fotografia l’hanno scritta facendola. Credo che questo abbia a che fare con il fatto che ho sempre sentito – con le dovute proporzioni! – una sorta di sentimento di fratellanza verso questi uomini e donne che hanno vissuto a fondo la loro vita con la fotografia. Non li ho dunque mai sentiti come padri, o come maestri lontani, bensì, appunto, come fratelli.  Fratelli, a volte, di un altro tempo e di un altro mondo, ma misteriosamente vicini.
E se è vero che, come diceva il grande storico dell’architettura Manfredo Tafuri, il maggior pericolo per uno storico è l’anacronismo – ossia il collocare fatti (o, dico io, anche modalità di pensiero) che appartengono a un’epoca a un’altra – credo che in molti casi possiamo, da non-storici, permetterci qualche slancio, perché osservare alcuni aspetti con le lenti di oggi potrebbe esserci d’insegnamento.

Maxime Du Camp

Maxime Du Camp – fotografia di Gustave Le Gray, 1849

Nel 1849 Maxime Du Camp ha ventisette anni, e decide di compiere un viaggio in Egitto e in Oriente allo scopo di compiere quello che è anche uno dei primissimi viaggi di documentazione fotografica delle antichità archeologiche presenti in quei luoghi. È un ricco e inquieto scrittore e viaggiatore, ambizioso e ben inserito nell’ambiente artistico e culturale di Parigi – che, non dimentichiamolo, a quell’epoca era il centro del mondo, un po’ come la New York di oggi. Per amici ha figure del calibro di Charles Baudelaire (che non senza qualche ironia gli dedicherà Le Voyage, il poema che chiude Les Fleurs du mal, qui in italiano e qui in francese), Théophile Gautier, Théodore Géricault e molti altri.

Du Camp, ogni storia della fotografia lo ricorda, tornerà a Parigi nel 1851, con 216 negativi realizzati con la tecnica del calotipo, che poco prima di partire gli aveva insegnato uno dei suoi amici, quel gigante della fotografia francese che ha nome Gustave Le Gray, e che Du Camp poi utilizzerà in una versione modificata da Blanquart-Evrard. Quella del calotipo è una tecnica che si basa sull’utilizzo di negativi di carta con macchine di grande e grandissimo formato, e come per altre tecniche ottocentesche fa impressione immaginarne l’uso nei climi torridi e avventurosi dell’Oriente. Viaggiare e fare fotografie a quel tempo era una attività davvero complicata: per capirlo basta andare a studiarsi il processo che era richiesto per realizzare una fotografia, buona parte del quale si doveva svolgere direttamente sul campo, subito prima e subito dopo lo scatto.

A Parigi, nel 1852, centoventicinque di questi negativi vennero stampati in duecento copie su carta salata (pare dallo stesso Blanquart-Evrard), e furono così prodotte duecento copie dell’album Égypte, Nubie, Palestine, Syrie, pubblicato dagli editori Gide & J. Baudry – conquistando così uno dei primissimi posti della storia di questo tipo di album fotografici. Du Camp dopo questa impresa smetterà del tutto di fare fotografie, ma questo viaggio accompagnerà la sua produzione letteraria a lungo.
Potete sfogliare una versione integrale dell’album – non ben riprodotta – presso il sito della Biblioteca Nazionale di Francia, ma in rete si trovano molti esempi delle tavole, con riproduzioni anche di ottima qualità.

Maxime Du Camp si era fatto accompagnare in questa vera e propria avventura da un caro amico, ed è affascinante leggere in parallelo i loro diari, le loro lettere agli amici e i rispettivi resoconti di viaggio. Purtroppo non tutto è stato tradotto in italiano, dunque abbiamo a disposizione un materiale frammentario, ma chiaro.
L’amico che accompagna Du Camp è un grandissimo: Gustave Flaubert.

Gustave Flaubert

Gustave Flaubert

Flaubert ha solo un anno in più dell’amico Maxime, ed è già il grande scrittore che conosciamo. Il legame tra i due è molto forte e di lunga data – basti pensare, ad esempio, che la figura di Fédéric, personaggio principare dell’Educazione sentimentale la cui prima stesura Flaubert aveva completato prima di questo viaggio, è in parte basata su quella di Du Camp, e che i due avevano già compiuto insieme un importante viaggio in Bretagna seguendo le orme di Chateaubriand. Du Camp è anche parte del cerchio ristrettissimo di amici ai quali Flaubert legge in anteprima i propri lavori, avendone poi pareri anche molto diretti, e stroncature severe – quale ad esempio quella che ricevette proprio da Du Camp riguardo alla prima versione del suo testo più visionario, La Tentazione di Sant’Antonio.

Nel viaggio Flaubert si comporta in modo molto diverso da Du Camp, e la loro corrispondenza lo rivela. Du Camp è attivissimo sia prima che durante il viaggio: si informa, organizza, lavora molto per realizzare le fotografie e ne stampa subito anche delle prove. In un saggio che ho trovato in una bella raccolta, Colonialist Photography, viene addirittura descritto come un esempio metaforico della ottocentesca frenesia borghese per la propria affermazione, basata sul fare. Flaubert al contrario è apatico, disinteressato, e anche se è in viaggio sul Nilo in luoghi straordinari sembra non accorgersene e passa gran parte del suo tempo sdraiato sul barcone che li trasporta.

È davvero interessante incrociare quanto i due scrivono, a partire da Du Camp:
(da Maxime Du Camp, Attraverso l’Oriente con Flaubert, ed. Novecento, Palermo 1986 )

Gustave Flaubert non condivideva la mia esaltazione, era tranquillo e viveva serenamente con se stesso. Aborriva il movimento, l’azione: se fosse stato possibile, avrebbe voluto viaggiare su un divano, e vedere i paesaggi, le rovine e le città passare davanti a lui automaticamente, come sullo sfondo mobile di una scena teatrale. Fin dai primi giorni della nostra permanenza al Cairo, avevo potuto notare la sua stanchezza e la sua noia; il viaggio tanto sognato, la cui realizzazione gli era sembrata impossibile, non gli dava nessuna soddisfazione; “Se vuoi tornare in Francia”, gli dissi allora, “ti farò accompagnare dal mio domestico”; ma egli rispose: “No, sono partito, e andrò fino in fondo; stabilisci tu dove andare, io ti seguirò. Per me è indifferente andare a destra o a sinistra”. I templi gli sembravano tutti uguali, i paesaggi sempre i medesimi, le moschee identiche le une alle altre. Ho il sospetto che davanti all’isola di Elefantina abbia rimpianti i prati di Sotteville e che, contemplando il Nilo, abbia pensato alla Senna. […] Davanti ai paesaggi africani, sognava la Normandia.

Flaubert riempie i suoi diari e le sue lettere di notazioni e descrizioni acutissime, dimostrando la distanza letteraria che lo divide da Du Camp, nonché di descrizioni vivide delle sfrenate attività sessuali che i due amici praticano in quei lembi quasi estremi del mondo dell’epoca – ma non manca spesso di rimarcare la frenetica attività dell’amico, più per frammenti che per discorsi compiuti:
(da Gustave Flaubert, Viaggio in Egitto, Ibis edizioni, Como-Pavia 1991  e da Gustave Flaubert, Cinque lettere dall’Egitto, Passigli Editori, Bagno a Ripoli 2007)

Non so come Maxime non si sia ancora ucciso per questa furiosa mania per la fotografia.
Domenica 5. – Ho sorvegliato gli stampaggi nel palazzo. Quando questa stupida incombenza fu terminata, passeggiata intorno a Karnak, dal lato Nord.
Lunedì. – Ancora stampaggio. Il mezzo mangia il fine, un buon ozio al sole è meno sterile di queste occupazioni a cui ci si dedica senza voglia.

In generale, Maxime Du Camp viene sempre descritto da Flaubert mentre sta facendo qualcosa. E Flaubert quasi sempre osserva. Ma infine, un giorno nei diari di Du Camp irrompe una frase decisiva, che ci spiega tutto:

Ai confini della Nubia inferiore, dell’orto di Gebel-Abusir che domina la seconda cascata, mentre guardavamo il Nilo spumeggiante tra le rocce aguzze di granito nero, Flaubert urlò: “Ho trovato! Eureka! Eureka! La chiamerò Emma Bovary!” e tante e tante volte ripeté, quasi lo gustasse, il nome di Bovary, pronunziando la o molto chiusa. A causa di uno strano fenomeno, le impressioni di questo viaggio riaffiorarono tutte insieme con grande forza quando scrisse Salammbô. Anche Balzac era così: non guardava niente e ricordava tutto.

Flaubert non si stava annoiando: aveva in gestazione il suo capolavoro, Madame Bovary. E come spesso appare da fuori, la sua attività era ridotta al minimo perché, possiamo pensare, era tutta rivolta all’interno, in quello stato un po’ sospeso che introduce il pensiero e precede la realizzazione. Le attese, i periodi di apparente sospensione, sono per un artista altrettanto importanti di quegli scatti in avanti, a volte frenetici, nei quali si dà mano alla produzione vera e propria – quando poi tutto, a volte, sembra poi facile perché maturato nell’attesa, nel silenzio.

Per Flaubert non fu un parto facile. Nel 1851 tornò in Francia nella casa di Croisset e vi si chiuse per quattro anni e otto mesi di lavoro inflessibile, di giorno come di notte, isolatissimo se non per le rare visite degli amici più cari. E lavorando a quella che in una lettera lui chiama “quella meccanica complicata con la quale arrivo a fare una frase” vi partorì uno dei capolavori della letteratura occidentale, considerato l’iniziatore del romanzo realista.
Sarà proprio Maxime Du Camp, divenuto nel frattempo direttore di una importante rivista letteraria, la Revue de Paris, a pubblicare a puntate il romanzo, dal 1 ottobre al 15 dicembre 1856, suscitando uno scandalo che porterà addirittura a un famoso processo.

Per rendersi conto di quanto impegno sia costata a Flaubert la redazione del romanzo, si può visitare uno sito ricchissimo di materiali, che credo non abbia eguali in italiano – a dimostrazione di come alcuni paesi sappiano valorizzare la loro cultura. In questo sito si trovano le riproduzioni di tutti i manoscritti del romanzo (qui ad esempio le prime pagine) nonché tutti i piani di stesura di Flaubert, vere e proprie sceneggiature – e molto altro ancora. Una miniera di meraviglie, nella quale si possono passare ore.
Basta vedere anche solo alcuni di questi fogli per intuire l’immenso sforzo di continua riscrittura e sistemazione che ha richiesto a Flaubert la ricerca della sua perfezione. Una lezione straordinaria, maturata inizialmente nell’apparente inattività e nella noia.

Può essere difficile viaggiare con un artista. Può essere difficile essere vicini a un artista, perché spesso, e a volte a lungo, un artista può dare l’impressione di una assoluta immobilità. Ai partner, agli amici, a tutte le persone care vicine a un artista è talvolta richiesta la paziente saldezza d’animo di sopportare e sostenere la sua stessa attesa: un compito ancora più difficile, che richiede grandezza del cuore e amore immenso – delle quali cose bisogna, da artisti, sapere essere grati.

Nota: il viaggio in Egitto, Nubia, Palestina e Siria di Maxime Du Camp e Gustave Flaubert ha anche un altro mistero che lo accompagna. Ne parleremo presto. [Edit: trovate qui il seguito di questo post]

 

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