Francesco Zanot – Magma-Fotografia

Trovate qui di seguito un testo che ho ricevuto da Francesco Zanot, che all’interno del ciclo di incontri che ho organizzato in collaborazione con la GAMeC di Bergamo ha presentato le numerose questioni che la fotografia si trova oggi ad affrontare, sia per il vivacissimo dilagare del riutilizzo di immagini “trovate” sia per la rapida ridefinizione che questo sta producendo nei rapporti con il cosiddetto mondo dell’arte. Francesco ha qui scelto, più che di riassumere i contenuti della sua presentazione, di precisare meglio alcune delle risposte alle domande che gli sono state poste dal pubblico alla fine della serata. Sono certo che le troverete molto interessanti.

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MAGMA-FOTOGRAFIA

L’intenzionalità resta un criterio fondamentale per definire un’opera d’arte. Anche se ormai in fotografia non si può più parlare soltanto di intenzione dell’autore, ma anche di intenzione degli autori. Penso ad operazioni come quelle di Feldmann, Raad, Mikhailov, Linda Fregni Nagler, che si basano sulla logica del prelievo e della ricontestualizzazione di immagini nate per scopi diversi. Anche alla fotografia non si può evitare di concedere una seconda chance. E una terza… La fotografia non si fa più al momento dello scatto (non soltanto), ma della sua scelta.
E questa logica di valorizzazione di una fotografia che non è più frutto dell’istante, credo possa essere utile per tenere insieme queste ultime opere con quelle a cui Michael Fried si riferisce maggiormente nel suo saggio sulla fotografia (Why Photography Matters As Art As Never Before): Wall, Gursky, Demand, Sugimoto… Anche Ghirri si contrapponeva alla logica del momento decisivo, sostenendo che la fotografia non gli interessasse per la sua capacità di catturare la devianza, le invisibili combinazioni che accadono in un istante, ma tutto ciò che permane e che poi si può andare a riscoprire dal vero, attraverso l’esperienza diretta. Probabilmente una delle ragioni che concede alla fotografia contemporanea di riscontrare tanto interesse nel mondo dell’arte è proprio questa: non si limita alla celebrazione dell’istante, ma approfondisce tempi diversi.

Jeff Wall, The Destryed Room, 1978

Jeff Wall, The Destryed Room, 1978

Perché la fotografia assume sempre più importanza all’interno della produzione e del dibattito dell’arte contemporanea?

Innanzitutto la fotografia si adatta perfettamente alla situazione attuale della realtà che mescola sempre più elementi naturali e costruiti, di finzione, rendendoli indistinguibili l’uno dal’altro. In questo senso credo che svolga un ruolo fondamentale l’accelerazione allo sviluppo tecnologico seguita all’avvento del digitale, che qui è importante prendere in considerazione non tanto per ciò che riguarda lo specifico della fotografia, ma più in generale per gli effetti che ha avuto sull’ambiente, la città, il nostro corpo, eccetera. Intorno a noi ci sono interi paesaggi disegnati al computer, così come nasi, bocche, organi che provengono da questa prassi. Ad aumentare, in sostanza, non è la quantità di finzione nella realtà, ma la sua qualità, che riduce di conseguenza la nostra capacità di distinguere fra l’una e l’altra. La fotografia ha sempre avuto questa caratteristica, proponendosi come una traccia fedele della realtà, pur costituendo invece una sua interpretazione, traduzione, revisione, come qualsiasi altra forma di rappresentazione. Dal momento che l’arte costituisce uno strumento per captare e magnificare i cambiamenti che avvengono intorno a noi, è naturale che l’interesse per il funzionamento della fotografia sia cresciuto  in questo ambito e che la sua presenza sia sempre più consolidata tra gli strumenti a disposizione degli artisti.

Haris Epamininonda, Untitled-001c_g, 2007

Haris Epamininonda, Untitled-001c_g, 2007

In secondo luogo bisogna considerare la capacità di penetrazione della fotografia all’interno di altri linguaggi e dispositivi. Qualsiasi linguaggio dell’arte è permeabile e aperto alle contaminazioni. Normalmente però si tratta di una disponibilità a lasciarsi modificare da agenti esterni. La fotografia si lascia modificare, ma allo stesso tempo ha una grandissima capacità di intervenire su tutto ciò che le sta intorno. È un medium fortemente attivo. La fotografia è tutto intorno a noi, penetra nel nostro quotidiano sfruttando la porosità dei principali sistemi/dispositivi di comunicazione, informazione, propaganda e conservazione dei dati. E allo stesso modo penetra nel mondo dell’arte combinandosi ad elementi esterni, formando con le altre discipline dei legami molto stretti, somiglianti a quelli che tengono insieme gli atomi. La fotografia influenza il cinema, la pittura, la scultura, l’architettura… Sempre più. In modo subdolo. Come un virus. Ma anche in modo molto naturale. Se consideriamo lo sviluppo dell’arte in senso darwiniano, guidato dall’evoluzione naturale, allora la fotografia, grazie a questa sua caratteristica, ha molte possibilità di crescere e proliferare.

Boris Mikhailov, Luriki, 1970-80

Boris Mikhailov, Luriki, 1970-80

Sulla fotografia digitale.
L’intervento del digitale in fotografia non ha alimentato il dibattito sulla commistione tra realtà e finzione all’interno di questo linguaggio. Semplicemente lo ha risolto, evidenziando come qualsiasi fotografia costituisca una interpretazione, manipolazione e distorsione della realtà. Meglio: si è confermato una volta per tutte come il soggetto e la sua immagine siano due cose diverse e si è spostata la riflessione su altre questioni. Per esempio sulla possibilità di distinguere fra fotografia e materia, ovvero tra fotografia e oggetto. La fotografia non ha più una localizzazione. Si sposta in rete. Diventa una questione relazionale, poiché l’autore perde il controllo sul contesto di fruizione.

Luc Delahaye, US Bombing on Taliban Positions, 2001

Luc Delahaye, US Bombing on Taliban Positions, 2001

 

 

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Chiamatelo Ishmael

Poco meno di un anno fa, nell’inseguire la vicenda di Maxime Du Camp e di Gustave Flaubert in Egitto, ho incontrato un libro che le dedica una attenzione particolare, analizzandone a fondo un aspetto particolarmente intrigante, che mi ha stimolato molte riflessioni sui possibili significati di quelle presenze umane così frequenti nella fotografia dell’Ottocento: quelle che tra me e me chiamo “l’omino davanti all’architettura”.

Maxime Du Camp, Thèbes, Colosse Monolithe d‘Amenopht III

Maxime Du Camp, Thèbes, Colosse Monolithe d‘Amenopht III, 1849-51

Ho già parlato del viaggio di Maxime Du Camp, descrivendone un aspetto che mi interessava e che riguarda la questione delle attese per un artista – ma in questo volume altre porte vengono aperte, a dimostrare quanto spesso gli eventi siano complessi e stratificati. La lunga analisi di Julia Ballerini, nel volume The Stillness of Hajj Ishmael, edito nel 2010 da iUniverse, New York, Bloomington, è un esempio bellissimo di come si possa svolgere uno studio approfondito ed esteso a partire da un gruppo di fotografie, e come questo possa incrociare discipline diverse quali la storia, l’antropologia, la psicologia, l’economia, la letteratura e, naturalmente, la storia della fotografia. Un approccio trasversale che è per noi rarissimo vedere applicato alla fotografia, il più delle volte oggetto solo di attenzioni superficiali o, viceversa, molto specifiche.
Questo mio intervento non vuole essere un riassunto o una mera recensione del libro: da un lato perché sarebbe davvero molto complesso condensare il ricco contenuto del volume, dall’altro perché forse mi interessa di più invitare quanti possono leggere in lingua inglese ad avvicinarsi a questo tipo di letture e allo stesso tempo proporre alcune mie osservazioni.

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L’incipit del volume ci porta immediatamente dentro a qualcosa che assomiglia molto alle atmosfere di un libro giallo (la traduzione è mia):

Quando lo scrittore Maxime Du Camp all’età di ventisette anni andò in Egitto nel novembre 1849, accompagnato dall’amico coetaneo Gustave Flaubert, i due navigarono su e giù per il Nilo durante sei degli otto mesi della loro permanenza, prima di continuare il loro viaggio nei sette mesi seguenti in Palestina, Siria, Turchia, Grecia e Italia. Du Camp aveva acquistato una macchina fotografica per questo viaggio; la maggior parte dei 216 negativi furono realizzati durante il viaggio sul Nilo. Meno di due mesi dopo aver lasciato l’Egitto la vendette a Beirut, e non fotografò mai più. Delle 125 immagini che vennero pubblicate in quello che divenne il primo importante album fotografico di questo tipo, 112 vennero realizzate in Egitto.
Nelle fotografie egiziane di Du Camp una piccola e scura figura appare, scompare, e riappare ancora in punti inaspettati, sempre solitaria. Basandosi sulle note di viaggio di Du Camp questa figura è Ishmael, un marinaio nubiano che era membro dell’equipaggio di Du Camp, unico modello che lui dichiara di aver utilizzato come “unità di misura” nel riprodurre gli antichi monumenti.

Basta l’elenco dei capitoli del volume per capire lo spessore della pressoché ventennale investigazione che Julia Ballerini ha condotto, a partire dalla fascinazione iniziale per quella figura man mano sempre più misteriosa ai suoi occhi, incontrata nel 1983 studiando l’album fotografico tanto famoso:

1. Home and its unfamiliar: Paris
2. Abroad and its familiar: Turkey and Algeria
3. In search of home: Brittany
4. 1848 Revolution and Algeria revisited
5. Preparing the Voyage en Orient
6. Cairo, the borrowed city
7. La maison démolie
8. The return of the repressed: Du Camp’s dream
9. The stillness of Hajj-Ishmael

Julia Ballerini conduce un’analisi approfondita delle condizioni storiche da un lato e dei movimenti interiori dall’altro che portarono Du Camp a realizzare quel viaggio e a condurre quella importante e inedita campagna fotografica, con modalità che sono conseguenza e specchio dell’essere un uomo del suo tempo. Nel volume vengono affrontate, con ampi riferimenti sia alla situazione dell’epoca che alla produzione artistica e letteraria, le vicende che Du Camp si trova ad affrontare nel suo tempo – e nella sua vita personale, segnata dalla precoce scomparsa dei suoi riferimenti familiari. Ci si trova così a intuire i complessi intrecci politici, economici, storici, ma anche inconsci e personali che producono  i comportamenti di un autore e che ne condizionano i risultati.

Dal punto di vista della situazione della società dell’epoca, Ballerini evidenzia con chiarezza l’effetto fortissimo che producono su una persona come Du Camp i sommovimenti politici (basti citare i moto parigini del 48, nei quali Du Camp si pose dalla parte della Guardia Nazionale, venendo addirittura ferito), così come la situazione di rapidissima industrializzazione ad opera del nascente capitalismo borghese. Questo comportò nuove distorsioni anche sull’assetto urbano e sociale delle grandi città, per l’enorme afflusso di lavoratori immigrati dalle province verso le maggiori città, creando quella che Ballerini definisce “racialization” di Parigi, che iniziò a soffrire di un crisi d’identità per le mescolanze culturali (pur se conseguenza, a quel tempo, di migrazioni soprattutto interne al territorio francese), e che in qualche modo iniziò, nella upper class alla quale Du Camp apparteneva, un fenomeno che Ballerini con un termine azzeccato definisce “ipocondria culturale”, quasi una sorta di depressione intellettuale.

Le rapide trasformazioni sociali portarono con sé sentimenti profondi di perdita e di ansia, sotto l’assalto delle nuove masse che trasformavano e complicavano le abitudini consolidate – da cui sentimenti diffusi di regressione e di disordine culturale che influenzarono anche la produzione intellettuale e perfino scientifica dell’epoca. E quasi paradossalmente, secondo Ballerini, la ricerca dell’identità perduta si attuò anche con il viaggio – spesso viaggio estremo e lontano, in paesi esotici, proprio perché in questi luoghi è più evidente la differenza con il proprio paese. L’identità veniva così a basarsi sulle percezione delle differenze, questione che sta anche alle radici del colonialismo e delle sue logiche e psicologie, delle quali Ballerini ci indica molti aspetti.

In quest’ottica la ricerca delle rovine di un glorioso e antico passato diventa anche, secondo Ballerini, una sorta di inconscia prefigurazione della fine della propria civiltà, presagio potente anche al di là delle talvolta opportunistiche intenzioni documentarie e scientifiche. Il viaggio in Oriente e le mode che ne conseguono, già iniziate in epoca napoleonica, in questo modo svolgono la funzione di doppio viaggio nel tempo: si esplora un passato memorabile, che è però anche prefigurazione del proprio futuro. E la fotografia, con la novità del suo aspetto di imparziale e precisissimo documento, offrì sponda perfetta a questi sommovimenti, sia perché confermava, mostrando le antiche rovine, la possibilità della catastrofe e della fine della civiltà, sia perché promise di conservare per il futuro la memoria dello status quo, del presente. La fotografia, dice Ballerini, rassicura l’ansia del tempo.

Maxime Du Camp, Tempio di Wady Kardassy, 1849-51

Maxime Du Camp, Temple de Wady Kardassy, Nubie, 1849-51

 

Stiamo cominciando a guardare queste immobili e frontali fotografie con uno sguardo un po’ diverso, non è così? È esattamente, mi pare, il paesaggio rinnovato che lo sguardo acuto dell’investigatore offre ai nostri occhi dopo la rivelazione di quanto ha scoperto. Il volume, ovviamente, contiene nei primi capitoli analisi e dimostrazioni ben più approfondite di quanto queste righe possano dar conto – ma basti, magari, per incuriosire a saperne di più.

Du Camp, diciamolo, non è un grande fotografo. Le sue fotografie sono quasi sempre molto convenzionali (Ballerini le definisce pre-fotografiche), e non hanno quei lampi di genio che altri, più o meno nella stessa epoca e negli stessi luoghi, hanno o avranno – basti citare l’amico Gustave Le Gray o Francis Frith. Tuttavia, l’aspetto che questo libro evidenzia è che ad essere interessanti non sono tanto le intenzioni consce di Du Camp quanto quelle inconsce, che diventano più evidenti man mano che si studia il contesto nel quale cresce e opera. Dal punto di vista scientifico questo libro evidentemente tira un poco verso il limite la sua indagine, come spesso succede quando si incrociano diverse discipline, ma la cosa dà i suoi frutti – può essere utile anche questo tipo di sforzo, purché non ricada nella forzatura.

In questa chiave, perfino gli atteggiamenti tipici del repertorio fotografico ottocentesco – quali la ricerca ordinatrice di una posizione elevata, o l’atteggiamento di freddo e controllato distacco dalla realtà – vengono qui riletti in chiave diversa dal solito: non formale o concreta, ma portatrice delle istanze intellettuali di un’epoca e delle sue insicurezze di fronte al caos crescente della vita, nonché delle vicende personali dell’autore. Du Camp, secondo Ballerini, è più interessato al processo del realizzare un’immagine che al risultato finale – nel quale infatti lui risulta essere sostanzialmente assente. Una apparente dichiarazione di neutralità assoluta, che però, secondo Ballerini, è anche una sorta di camouflage. Du Camp crea una sorta di cortina fumogena dietro la quale nasconde se stesso.

Siamo arrivati, così, ad Hajj-Ishmael e alla sua immobilità.

Maxime Du Camp, Hypètre d'Athor, sur la Terrasse du grande Temple de Dendérah (Tentyris), 1849-51

Maxime Du Camp, Hypètre d’Athor, sur la Terrasse du grande Temple de Dendérah (Tentyris), 1849-51

 

Tutto quello che sappiamo di Hajj-Ishmael è in pochi brani nei diari di viaggio di Du Camp:

Ogni volta che visitavo un monumento avevo l’apparecchiatura fotografica e portavo con me uno dei nostri marinai, Hajj-Ishmael, un magnifico nubiano che facevo arrampicare sulle rovine che volevo fotografare, così che potevo sempre includere un elemento che desse idea delle proporzioni.
La più grande difficoltà era far sì che restasse perfettamente fermo mentre facevo le mie operazioni, e infine ci riuscii con un trucco: gli dissi che il tubo d’ottone della lente che spuntava dalla fotocamera era un cannone, che avrebbe vomitato una valanga di mitraglia se lui avesse avuto la sfortuna di muoversi – questo lo immobilizzava completamente, come ben si può vedere nelle mie fotografie.

Erano richiesti due minuti di posa e dunque un congelamento che assomiglia alla morte, o, dice Ballerini, alla mummificazione, con il processo che nella fotografia trasforma un soggetto in un oggetto (Barthes). La fotografia, lo sappiamo, effettua una sorta di taglio temporale che molti apparentano alla morte. C’è anche un altro taglio nelle fotografie di Du Camp: in molti casi Hajj-Ishmael, dalla pelle scura, posto davanti ad antichità scurite dal tempo diventa quasi invisibile, non fosse che per il bianco triangolo di lino che gli copre le parti intime. Anche questa, nota Ballerini, è un’altra strana caratteristica: perché quest’uomo è quasi sempre seminudo? In altre immagini di Du Camp raramente appaiono altre figure, e quando lo fanno sono sempre vestite del lungo abito tradizionale (quando addirittura non è lo stesso Flaubert ad apparirci così travestito in una delle immagini). Hajj-Ishmael è sempre seminudo. E data la costruzione attenta e la complessità di realizzazione non è pensabile che questa non fosse una scelta, in un certo senso teatrale, dell’autore. Si conosce bene il ruolo della nudità nelle immagini coloniali di tutti i tempi per non capirne il significato incrociato legato al razzismo, al senso di superiorità sul “primitivo” e ad allusioni sessuali, qui anche omoerotiche, ma comunque basate su un chiaro meccanismo di potere: Du Camp era vestito.

Le stesse posizioni che Hajj-Ishmael assume nelle fotografie sono spesso anticonvenzionali, appunto quasi fossero le figure di un teatro vivente, devianti rispetto alle intenzioni dichiarate dell’essere una mera unità di misura. Quella del posizionamento delle figure nella scena era materia di studio e discussione già da tempo per la pittura e Du Camp di certo non ne era ingenuo. Così Hajj-Ishmael, unico elemento attuale nelle immagini di Du Camp, in un certo modo si fonde con le rovine, diventa, dice Ballerini, scultura anch’esso, e si collega così al glorioso passato storico, emancipandosi così dallo sguardo inevitabilmente un po’ razzista del colonialista europeo – che tra l’altro in quell’epoca, suggerisce il testo, interpreta sempre il viaggio verso terre lontane come un viaggio verso il passato, basato sul senso coloniale di superiorità tecnologica, di progresso, di sviluppo.

A dimostrare la particolarità della relazione tra Du Camp e Hajj-Ishmael Ballerini nota altri due elementi: il primo, che Hajj-Ishmael è sempre solo. Non vi sono, come invece succede spesso nelle immagini di altri fotografi, altre figure, magari disposte nello spazio a rivelarne la profondità – il rapporto è diretto tra chi scatta e chi fa da modello, che oltretutto guarda quasi sempre in macchina (o guarda Du Camp?). L’altro elemento sta nel fatto che Du Camp si premuri in più di una occasione, nei suoi testi, di dirci il nome del suo “strumento di misura”. Una personalizzazione di questo tipo è del tutto inusuale, dice Ballerini. I servi erano citati nei testi dei viaggiatori, ma raramente per nome – i servi sono solo corpi che svolgono funzioni (“la guida”, “il cammelliere” eccetera) e non identità precise e, vien da dire, umane. E anche se non ci viene detto nulla della personalità di Hajj-Ishmael, c’è un dialogo invisibile, quasi un rispecchiarsi, tra Hajj-Ishmael e Du Camp (che tra l’altro vantava di avere anche sangue arabo nelle vene). Ballerini la definisce una romantica proiezione di se stesso.

Fermiamoci qui. Chiunque abbia riflettuto un poco sul gesto del fotografare sa bene quanto nelle immagini prodotte dall’apparecchio, apparentemente solo meccanico, vi sia una potente proiezione inversa – dal fotografo alla realtà. Scovarne le tracce anche in fotografie che sono dei veri e propri incunaboli di una lunga tradizione è stato per me un viaggio affascinante, permesso da questo libro.

Nota: come già nella puntata precedente, ne annuncio una seguente. Maxime Du Camp è stato a suo modo un personaggio straordinario: nel 1860 addirittura partecipò alla spedizione di Garibaldi nel Regno delle Due Sicilie. Questo fatto mi ha fatto venire in mente un’altra storia da raccontarvi…

 

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Elio Grazioli – Fotografi o artisti che usano la fotografia?

Una breve premessa: lo scorso giovedì 9 aprile sono iniziati gli incontri sul tema dei rapporti tra fotografia e arte che ho contribuito ad organizzare presso la GAMeC di Bergamo, di cui avevo accennato qui.
Il primo incontro, molto denso, è stato tenuto da Elio Grazioli. Alla fine della serata gli ho chiesto se potevo pubblicare qui sul blog alcune sue frasi chiave prese dagli appunti che avevo preso durante il suo intervento. Lui è stato molto disponibile e così il giorno dopo gli ho inviato alcuni brevi frammenti che mi pareva potessero rendere conto di quanto aveva detto, perché li controllasse. Ecco, con bella generosità Elio Grazioli mi ha rinviato il testo che trovate qui di seguito, che è ben più di un resoconto essenziale e che allo stesso tempo ha la freschezza di una sua personale trascrizione. Sono molto felice di pubblicarlo su questo blog.

 

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Quale è fotografia? Quale è arte? Che cos’è la fotografia?
[foto di Bernard Plossu, Thomas Ruff, Wolfgang Tillmans, Jeff Wall, Joachim Schmid]

Premessa: siamo nell’epoca postmediale, che cosa significa?
Ricostruiamo a grandi linee i termini del dibattito recente su tali questioni.
Si può intendere l’epoca postmediale come la fine della specificità dei media su cui era basato il Modernismo, come viene perlopiù presentata (soprattutto in ambito americano), e dunque utilizzo di qualsiasi medium con libertà a fini peculiari per ogni opera e ogni contenuto. La fotografia-fotografia verrebbe così consegnata al passato, ai tempi della specificità, e l’“uso della fotografia” ne sarebbe il superamento.
Ma è l’unico modo di vedere la questione?
Da un certo punto di vista più che la soluzione questa sembra il problema. Infatti se usi uno strumento, lo hai scelto per le sue caratteristiche e dunque sei ancora soggetto, almeno in parte, alle sue regole – quindi dipende che cosa si intende per “specificità”. D’altro canto occorre anche intendersi su che cosa si intende per “uso”, ovvero, detto più teoricamente, su che cosa sia un medium, come si usa dire oggi. (Credo che su questo punto sia un’utile lettura l’ultimo libro di Rosalind Krauss, La tazza blu.)
C’è poi un altro aspetto del problema che è invece evidenziato da termini come “obsolescenza” e “anacronismo”. Sono stati ripresi da più parti negli ultimi decenni – per dare dei riferimenti direi ancora la Krauss ma soprattutto Georges Didi-Huberman e Giorgio Agamben – a partire da riletture di Aby Warburg e Walter Benjamin.
Per l’obsolescenza dice quest’ultimo, in particolare, che i fenomeni tecnologici quando diventano obsoleti hanno una sorta di canto del cigno, per cui il fenomeno obsolescente anticipa e scavalca il fenomeno che l’ha superato. Il suo esempio sono i panorami, così diffusi nei primi decenni dell’Ottocento, sostituiti dalla fotografia, che invece prefigurano il cinema, che ha a sua volta scalzato la fotografia.
Per l’anacronismo il riferimento che ci interessa, sempre benjaminiano, sono l’“immagine dialettica” e il “balzo della tigre”, ovvero due grovigli temporali che mostrano appunto come il tempo non vada visto come lineare, continuo, ma punteggiato di momenti in cui i tempi subiscono contrazioni, condensazioni e anche rovesciamenti. Si faccia riferimento anche al “caso oggettivo” di André Breton, all’“après-coup” di Jacques Lacan e altri.
Così possiamo pensare alla contemporaneità come a un’epoca in cui coesistono e si intrecciano temporalità e opzioni diverse, che si rispondono tra loro, ma soprattutto che la fotografia-fotografia può avere degli argomenti, magari “nuovi” – non in senso assoluto ma di rinnovato –, che la rendono altrettanto interessante e non “sorpassata” dall’arte-che-usa-la-fotografia.
D’altro canto il problema centrale spesso diventa questo: è attuale ciò che rispecchia il momento o ciò che vi risponde?

Tento dunque di enunciare il diverso contesto in cui si può situare la fotografia oggi in altro modo e perciò della ragioni per guardarla con interesse rinnovato.
Il primo punto corrisponde al dibattito di questi ultimi decenni intorno al “visuale”, la “cultura visuale” e quella che è stata chiamata “svolta iconica” (vedi la bella sintesi che ne hanno fatto Andrea Pinotti e Antonio Somaini nel libro Teorie dell’immagine). In sostanza la questione è riassumibile così: dopo decenni di “svolta linguistica”, dove era la dimensione verbale, che è logica, deduttiva, lineare, sintattica, si evidenzia il fatto che l’immagine segue altre vie, non lineari, analogiche, fatte per rimandi, evocazioni, spostamenti e altro, in una parola – mediata dal cinema ma rilanciata in altra modalità – lavora come e attraverso il “montaggio” (vedi anche qui Georges Didi-Huberman).
Il secondo punto risponde alle problematiche che fanno riferimento allo sguardo. Intorno ad esso coagulano in realtà diverse questioni, sia quella lacaniana che potremmo sintetizzare con la formula “anche le immagini guardano noi, mentre noi le guardiamo”, ovvero che esiste uno sguardo che ci viene dalle immagini stesse e che dunque complica il nostro rapporto di puri osservatori; sia quella apparentemente più semplice ma così prettamente fotografica, che attraverso l’immagine noi vediamo in mondo diverso – qui si può fare riferimento all’“inconscio ottico”, così come alla differenza tra guardare e vedere, nonché a tutte le questioni che vanno dal documento alla memoria all’archivio.
Resta come terzo punto il problema del tempo: lo si è già detto a proposito dell’“immagine dialettica”: il tempo fotografico è un tempo speciale, l’“istante” è un groviglio in cui passato, presente e futuro non tanto collassano ma addirittura rompono la loro continuità cronologica e si rovesciano. Il riferimento a quel tempo speciale che si chiama “futuro anteriore” – vedi La camera chiara di Roland Barthes – e all’“après-coup” che abbiamo già nominato: è da dopo che ricostruisco e comprendo il prima, è dall’immagine che “vedo” la realtà.

Potremmo già fermarci qui ma vogliamo aggiungere altri spunti solo apparentemente meno essenziali, sicuramente meno discussi nel dibattito teorico ma che per noi si intrecciano ad esso indissolubilmente.
Uno è quello della “sensibilità”: noi abbiamo l’impressione che la fotografia insegni anche una ricerca di un dosaggio equilibrato delle componenti dell’atto creativo (non enfasi, non concetto, non formalismo…).
Un altro è quello di una casualità peculiare della fotografia proprio perché cattura tutto ciò che sta davanti alla macchina fotografica, senza selezione – per riprendere, rovesciandolo, la famosa obiezione di Baudelaire per cui secondo lui la fotografia non sarebbe mai diventata un’arte perché non seleziona ciò che si limita a registrare. Non vi è qui, invece che un limite, un possibile nucleo ulteriore? (per questo rimando a Jean-Christophe Bailly)
Ultima questione è quella dello “scatto”: la fotografia rilancia in modo rinnovato l’idea dell’“opera”, dell’immagine come qualcosa di fissato, se non di fisso, che condensa, contiene, “comprende”, nei due sensi della parola, il processo creativo.

Elio Grazioli

 

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Non guardare niente, e ricordare tutto

Una delle cose che mi sconcertano della storiografia moderna è il suo disinteresse per il dato biografico. Intendiamoci: sono uno strenuo sostenitore di un approccio quanto più scientifico possibile allo studio della storia, e credo ad esempio che purtroppo in Italia si sia cominciato da poco tempo a occuparsi in questo modo della fotografia. Un approccio scientifico non significa però, a mio parere, escludere quasi completamente le vicende personali, e in fondo le emozioni, degli autori o artisti dei quali ci si occupa.

Non sono uno storico della fotografia, anche se ne sono molto appassionato, dunque credo di potermi permettere anche escursioni in territori un po’ più fluttuanti e instabili. In particolare, sono sempre molto attratto dalle vicende umane delle persone che la storia della fotografia l’hanno scritta facendola. Credo che questo abbia a che fare con il fatto che ho sempre sentito – con le dovute proporzioni! – una sorta di sentimento di fratellanza verso questi uomini e donne che hanno vissuto a fondo la loro vita con la fotografia. Non li ho dunque mai sentiti come padri, o come maestri lontani, bensì, appunto, come fratelli.  Fratelli, a volte, di un altro tempo e di un altro mondo, ma misteriosamente vicini.
E se è vero che, come diceva il grande storico dell’architettura Manfredo Tafuri, il maggior pericolo per uno storico è l’anacronismo – ossia il collocare fatti (o, dico io, anche modalità di pensiero) che appartengono a un’epoca a un’altra – credo che in molti casi possiamo, da non-storici, permetterci qualche slancio, perché osservare alcuni aspetti con le lenti di oggi potrebbe esserci d’insegnamento.

Maxime Du Camp

Maxime Du Camp – fotografia di Gustave Le Gray, 1849

Nel 1849 Maxime Du Camp ha ventisette anni, e decide di compiere un viaggio in Egitto e in Oriente allo scopo di compiere quello che è anche uno dei primissimi viaggi di documentazione fotografica delle antichità archeologiche presenti in quei luoghi. È un ricco e inquieto scrittore e viaggiatore, ambizioso e ben inserito nell’ambiente artistico e culturale di Parigi – che, non dimentichiamolo, a quell’epoca era il centro del mondo, un po’ come la New York di oggi. Per amici ha figure del calibro di Charles Baudelaire (che non senza qualche ironia gli dedicherà Le Voyage, il poema che chiude Les Fleurs du mal, qui in italiano e qui in francese), Théophile Gautier, Théodore Géricault e molti altri.

Du Camp, ogni storia della fotografia lo ricorda, tornerà a Parigi nel 1851, con 216 negativi realizzati con la tecnica del calotipo, che poco prima di partire gli aveva insegnato uno dei suoi amici, quel gigante della fotografia francese che ha nome Gustave Le Gray, e che Du Camp poi utilizzerà in una versione modificata da Blanquart-Evrard. Quella del calotipo è una tecnica che si basa sull’utilizzo di negativi di carta con macchine di grande e grandissimo formato, e come per altre tecniche ottocentesche fa impressione immaginarne l’uso nei climi torridi e avventurosi dell’Oriente. Viaggiare e fare fotografie a quel tempo era una attività davvero complicata: per capirlo basta andare a studiarsi il processo che era richiesto per realizzare una fotografia, buona parte del quale si doveva svolgere direttamente sul campo, subito prima e subito dopo lo scatto.

A Parigi, nel 1852, centoventicinque di questi negativi vennero stampati in duecento copie su carta salata (pare dallo stesso Blanquart-Evrard), e furono così prodotte duecento copie dell’album Égypte, Nubie, Palestine, Syrie, pubblicato dagli editori Gide & J. Baudry – conquistando così uno dei primissimi posti della storia di questo tipo di album fotografici. Du Camp dopo questa impresa smetterà del tutto di fare fotografie, ma questo viaggio accompagnerà la sua produzione letteraria a lungo.
Potete sfogliare una versione integrale dell’album – non ben riprodotta – presso il sito della Biblioteca Nazionale di Francia, ma in rete si trovano molti esempi delle tavole, con riproduzioni anche di ottima qualità.

Maxime Du Camp si era fatto accompagnare in questa vera e propria avventura da un caro amico, ed è affascinante leggere in parallelo i loro diari, le loro lettere agli amici e i rispettivi resoconti di viaggio. Purtroppo non tutto è stato tradotto in italiano, dunque abbiamo a disposizione un materiale frammentario, ma chiaro.
L’amico che accompagna Du Camp è un grandissimo: Gustave Flaubert.

Gustave Flaubert

Gustave Flaubert

Flaubert ha solo un anno in più dell’amico Maxime, ed è già il grande scrittore che conosciamo. Il legame tra i due è molto forte e di lunga data – basti pensare, ad esempio, che la figura di Fédéric, personaggio principare dell’Educazione sentimentale la cui prima stesura Flaubert aveva completato prima di questo viaggio, è in parte basata su quella di Du Camp, e che i due avevano già compiuto insieme un importante viaggio in Bretagna seguendo le orme di Chateaubriand. Du Camp è anche parte del cerchio ristrettissimo di amici ai quali Flaubert legge in anteprima i propri lavori, avendone poi pareri anche molto diretti, e stroncature severe – quale ad esempio quella che ricevette proprio da Du Camp riguardo alla prima versione del suo testo più visionario, La Tentazione di Sant’Antonio.

Nel viaggio Flaubert si comporta in modo molto diverso da Du Camp, e la loro corrispondenza lo rivela. Du Camp è attivissimo sia prima che durante il viaggio: si informa, organizza, lavora molto per realizzare le fotografie e ne stampa subito anche delle prove. In un saggio che ho trovato in una bella raccolta, Colonialist Photography, viene addirittura descritto come un esempio metaforico della ottocentesca frenesia borghese per la propria affermazione, basata sul fare. Flaubert al contrario è apatico, disinteressato, e anche se è in viaggio sul Nilo in luoghi straordinari sembra non accorgersene e passa gran parte del suo tempo sdraiato sul barcone che li trasporta.

È davvero interessante incrociare quanto i due scrivono, a partire da Du Camp:
(da Maxime Du Camp, Attraverso l’Oriente con Flaubert, ed. Novecento, Palermo 1986 )

Gustave Flaubert non condivideva la mia esaltazione, era tranquillo e viveva serenamente con se stesso. Aborriva il movimento, l’azione: se fosse stato possibile, avrebbe voluto viaggiare su un divano, e vedere i paesaggi, le rovine e le città passare davanti a lui automaticamente, come sullo sfondo mobile di una scena teatrale. Fin dai primi giorni della nostra permanenza al Cairo, avevo potuto notare la sua stanchezza e la sua noia; il viaggio tanto sognato, la cui realizzazione gli era sembrata impossibile, non gli dava nessuna soddisfazione; “Se vuoi tornare in Francia”, gli dissi allora, “ti farò accompagnare dal mio domestico”; ma egli rispose: “No, sono partito, e andrò fino in fondo; stabilisci tu dove andare, io ti seguirò. Per me è indifferente andare a destra o a sinistra”. I templi gli sembravano tutti uguali, i paesaggi sempre i medesimi, le moschee identiche le une alle altre. Ho il sospetto che davanti all’isola di Elefantina abbia rimpianti i prati di Sotteville e che, contemplando il Nilo, abbia pensato alla Senna. […] Davanti ai paesaggi africani, sognava la Normandia.

Flaubert riempie i suoi diari e le sue lettere di notazioni e descrizioni acutissime, dimostrando la distanza letteraria che lo divide da Du Camp, nonché di descrizioni vivide delle sfrenate attività sessuali che i due amici praticano in quei lembi quasi estremi del mondo dell’epoca – ma non manca spesso di rimarcare la frenetica attività dell’amico, più per frammenti che per discorsi compiuti:
(da Gustave Flaubert, Viaggio in Egitto, Ibis edizioni, Como-Pavia 1991  e da Gustave Flaubert, Cinque lettere dall’Egitto, Passigli Editori, Bagno a Ripoli 2007)

Non so come Maxime non si sia ancora ucciso per questa furiosa mania per la fotografia.
Domenica 5. – Ho sorvegliato gli stampaggi nel palazzo. Quando questa stupida incombenza fu terminata, passeggiata intorno a Karnak, dal lato Nord.
Lunedì. – Ancora stampaggio. Il mezzo mangia il fine, un buon ozio al sole è meno sterile di queste occupazioni a cui ci si dedica senza voglia.

In generale, Maxime Du Camp viene sempre descritto da Flaubert mentre sta facendo qualcosa. E Flaubert quasi sempre osserva. Ma infine, un giorno nei diari di Du Camp irrompe una frase decisiva, che ci spiega tutto:

Ai confini della Nubia inferiore, dell’orto di Gebel-Abusir che domina la seconda cascata, mentre guardavamo il Nilo spumeggiante tra le rocce aguzze di granito nero, Flaubert urlò: “Ho trovato! Eureka! Eureka! La chiamerò Emma Bovary!” e tante e tante volte ripeté, quasi lo gustasse, il nome di Bovary, pronunziando la o molto chiusa. A causa di uno strano fenomeno, le impressioni di questo viaggio riaffiorarono tutte insieme con grande forza quando scrisse Salammbô. Anche Balzac era così: non guardava niente e ricordava tutto.

Flaubert non si stava annoiando: aveva in gestazione il suo capolavoro, Madame Bovary. E come spesso appare da fuori, la sua attività era ridotta al minimo perché, possiamo pensare, era tutta rivolta all’interno, in quello stato un po’ sospeso che introduce il pensiero e precede la realizzazione. Le attese, i periodi di apparente sospensione, sono per un artista altrettanto importanti di quegli scatti in avanti, a volte frenetici, nei quali si dà mano alla produzione vera e propria – quando poi tutto, a volte, sembra poi facile perché maturato nell’attesa, nel silenzio.

Per Flaubert non fu un parto facile. Nel 1851 tornò in Francia nella casa di Croisset e vi si chiuse per quattro anni e otto mesi di lavoro inflessibile, di giorno come di notte, isolatissimo se non per le rare visite degli amici più cari. E lavorando a quella che in una lettera lui chiama “quella meccanica complicata con la quale arrivo a fare una frase” vi partorì uno dei capolavori della letteratura occidentale, considerato l’iniziatore del romanzo realista.
Sarà proprio Maxime Du Camp, divenuto nel frattempo direttore di una importante rivista letteraria, la Revue de Paris, a pubblicare a puntate il romanzo, dal 1 ottobre al 15 dicembre 1856, suscitando uno scandalo che porterà addirittura a un famoso processo.

Per rendersi conto di quanto impegno sia costata a Flaubert la redazione del romanzo, si può visitare uno sito ricchissimo di materiali, che credo non abbia eguali in italiano – a dimostrazione di come alcuni paesi sappiano valorizzare la loro cultura. In questo sito si trovano le riproduzioni di tutti i manoscritti del romanzo (qui ad esempio le prime pagine) nonché tutti i piani di stesura di Flaubert, vere e proprie sceneggiature – e molto altro ancora. Una miniera di meraviglie, nella quale si possono passare ore.
Basta vedere anche solo alcuni di questi fogli per intuire l’immenso sforzo di continua riscrittura e sistemazione che ha richiesto a Flaubert la ricerca della sua perfezione. Una lezione straordinaria, maturata inizialmente nell’apparente inattività e nella noia.

Può essere difficile viaggiare con un artista. Può essere difficile essere vicini a un artista, perché spesso, e a volte a lungo, un artista può dare l’impressione di una assoluta immobilità. Ai partner, agli amici, a tutte le persone care vicine a un artista è talvolta richiesta la paziente saldezza d’animo di sopportare e sostenere la sua stessa attesa: un compito ancora più difficile, che richiede grandezza del cuore e amore immenso – delle quali cose bisogna, da artisti, sapere essere grati.

Nota: il viaggio in Egitto, Nubia, Palestina e Siria di Maxime Du Camp e Gustave Flaubert ha anche un altro mistero che lo accompagna. Ne parleremo presto. [Edit: trovate qui il seguito di questo post]

 

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Un ambiente congelato e ambiguo

Il lavoro dei giovani è spesso costretto a inventarsi forme autonome di diffusione, ma anche di elaborazione teorica. E non è detto che questo sia un male. Nelle difficili condizioni italiane, va però detto, tra crisi infinite e rigidità intergenerazionali, produrre una seria ricerca artistica non è certo per i deboli di cuore o per gli scarsi di motivazione. Tuttavia, con un movimento che mi ricorda l’inevitabile spostarsi di un liquido che trova sempre una via di discesa grazie all’essere sottoposto alle forze gravitazionali, il lavoro di alcuni giovani riesce a crescere e a maturare, grazie alla spinta della lucidità e della determinazione che essi riescono a dedicarvi.

Credo sia necessaria in questa occasione una premessa: il mio punto di osservazione, riguardo al lavoro dei giovani, è al tempo stesso limitato e fortunato. Limitato, perché dato che credo di poter parlare solo di ciò che conosco bene, e non essendo un curatore o uno studioso di mestiere, il mio panorama si riduce di solito alla conoscenza del lavoro dei miei ex studenti (quei purtroppo pochi che negli anni dopo gli studi riescono a proseguire seriamente la loro ricerca) nonché ad altri incontri più occasionali. Entrambi i casi di solito richiedono un tempo di almeno tre anni perché ne siano confermate le eventuali buone impressioni iniziali. Il mio osservatorio è però anche fortunato, perché le molteplici attività didattiche che svolgo mi permettono da un lato di insegnare in alcuni dei luoghi migliori per lo studio della Fotografia in Italia (o meglio, del nord Italia) e dall’altro, grazie a esperienze quali una residenza che curo da anni in Valle d’Aosta, di incontrare anche giovani provenienti da altre validissime realtà.

Succederà insomma qui, ogni tanto, che io voglia porre sotto la vostra lente i risultati di alcuni giovani che conosco a fondo e che ritengo stiano lavorando molto bene – con lo spirito, che regola anche le mie modalità di docente, che quanto più riescano a sorprendermi con la loro intelligenza tanto più sia giusto che io vi dedichi attenzione e rispetto. Lo dico chiaramente: vi sono docenti che tendono a creare piccoli cloni di se stessi e vi sono altri docenti ai quali interessa solo poter aiutare, maieuticamente, i giovani a trovare un loro personale approccio. Spesso questi due aspetti sono compresenti: ma per quanto mi riguarda, direi che senza dubbio mi pongo nella seconda categoria. Per questo, presenterò qui anche lavori che non necessariamente corrispondono a quanto penso o amo sul piano personale riguardo alla fotografia. Certe cose vanno comunque dette, certe cose vanno comunque viste e i giovani talenti hanno il polso del mondo: veloce, fresco, deciso, e, nei casi migliori, brillante.

Teresa Giannico

Teresa Giannico, Landscapes in Milan

Teresa Giannico costruisce le sue fotografie, letteralmente, con un laborioso processo manuale che prevede l’utilizzo massivo di immagini – realizzate da lei stessa o in alcuni casi prese dal web – che vengono stampate in modalità bozza con una stampante economica, e poi utilizzate per rivestire dei rustici modellini in cartone grossolano che tutti insieme formano dei diorami, dei teatrini che riproducono in scala la realtà – il più delle volte non inventata ma presa da altre fotografie. Teresa Giannico infine fotografa questi plastici imperfetti e ottiene così quello che viene consegnato alla nostra visione.

Le imperfezioni, le ruvidezze del suo lavoro mi paiono essere uno dei tratti salienti della sua ricerca e credo che un po’ paradossalmente siano una delle ragioni principali della fascinazione che possono produrre le sue opere. Nei risultati finali resta traccia evidente di tutta la complessa sequenza di produzione, e questo toglie completamente quella sorta di patinatura liscia con la quale spesso le fotografie rivestono la realtà. È dunque un processo quasi brutale, quello al quale sono sottoposte le suggestioni di partenza sulle quali lavora, e allo stesso tempo il processo è controllatissimo in ogni suo passaggio: forse nel coniugarsi di queste due istanze sta una delle chiavi di comprensione di questi complessi lavori.

Potrei andare avanti ancora a lungo, tanti sono gli stimoli e i ragionamenti che possono saltar fuori… Ma quando ho detto a Teresa Giannico che mi sarebbe piaciuto mostrare qui il suo lavoro le ho anche chiesto se poteva buttar giù qualche sua riga di riflessione personale. Bè, contrariamente alle mie aspettative (basate sulle abituali enormi difficoltà di scrittura di cui molti giovani oggi soffrono) devo dire che mi è stato dato un testo lungo e interessante – a dimostrazione di una volontà introspettiva sul proprio lavoro che dovrebbe essere esempio per molti. Mi fermo dunque qui e lascio parlare Teresa Giannico, scegliendo alcuni brani del suo testo. Inframmezzano le sue dichiarazioni alcune immagini dei suoi lavori, di un suo recente quaderno di appunti e del suo studio: lavori che potrete approfondire e vedere per esteso nel suo sito.

 


 

Teresa Giannico

Teresa Giannico, Rogoredo

Ho iniziato a lavorare con i diorami nel periodo in cui studiavo fotografia. Mi ero resa conto di non riuscire ad avvicinarmi appieno a questo mezzo, al gesto della fotografia. Avevo un’altra forma mentis; ho studiato per tanti anni pittura e illustrazione, dunque sono cresciuta con quel tipo di approccio all’immagine. Ma già quando studiavo all’Accademia di Belle Arti di Bari realizzavo pochissimi dipinti, prediligendo il collage e frequentando piuttosto le aule di scenografia, trascorrendo molto tempo nei corridoi pieni di plastici, assistendo da dietro le quinte agli spettacoli teatrali nei quali lavoravano i miei colleghi. Il montare una scena è dunque qualcosa che ho sempre vissuto, così come son sempre fuggita da qualsiasi tecnica specifica: non la pittura, non la scenografia, questa volta non la fotografia. Ma la sfumatura di ognuna sì.

Nel mio lavoro ho scelto di parlare di luoghi, del modo in cui li guardiamo e li viviamo, e per farlo li ricostruisco da zero realizzando dei plastici che poi fotografo. Spesso i miei scenari sono realmente esistenti, ma la scelta di ricostruirli mi aiuta a estrapolare oggetti e ambienti da un contesto specifico, a sintetizzarne le forme ed i colori, a spostare l’attenzione di qualche grado: dall’oggetto in sé alla sua natura. Con la fotografia diretta del reale non raggiungerei la stessa ambiguità. La fotografia riconduce troppo a un luogo preciso e all’esistenza di questo.
La mia pratica si sviluppa prendendo informazioni dalla realtà e scegliendo degli spazi; di questi poi rielaboro ogni singolo elemento. Costruisco tridimensionalmente gli oggetti di riferimento sui quali poi incollo le texture in precedenza fotografate e poi stampate. Non le dipingo, perché la pittura ha insito nel suo fare l’astrazione dell’oggetto. Io cerco una mediazione.
Utilizzo il cartone perché è materiale che non ha velleità di modellismo, lascia anzi delle imperfezioni e quella matericità ha un senso perché non ho la presunzione che i miei oggetti risultino veri. Ma nemmeno palesemente finti. Il risultato al quale ambisco è quello di un ambiente congelato e ambiguo.

Il diorama che costruisco potrebbe essere un’installazione. Ma a quel punto diventerebbe un’altra cosa. Un’installazione vive di una sua tridimensionalità, di una sua superficie ed è collocata in uno spazio. Il fruitore la guarda da lontano, poi si avvicina, ci gira intorno, decide come approcciarsi all’oggetto.
A me invece interessa creare un gap tra l’oggetto esistente e quello immaginato. Lo voglio estrapolare dal tempo e dallo spazio. Deve esistere solo in fotografia, che è quel momento che si è interposto tra l’artefatto e me.

Questi diorami sono per me un espediente per parlare di temi ai quali sono sempre stata legata, temi di impronta sociale; in modo particolare mi affascina il sentimento con cui l’individuo vive nel suo ambiente. Ho iniziato ad affrontare questo argomento occupandomi della mia città, Bari, percorrendo una linea immaginaria dal centro alla periferia della città e ragionando su come il variare dello spazio urbano, delle sue architetture, condizionasse gli atteggiamenti della popolazione.

Teresa Giannico, Bari

Teresa Giannico, Bari

Ho continuato questa ricerca con modalità meno documentaristiche, preferendo concentrarmi sull’atmosfera più intima riferita al singolo individuo, e aggiungendo ai miei interessi il tema della transitorietà e dell’incertezza, aspetti molto comuni e attuali derivanti dalla crisi economica.
Rogoredo è stata la prima serie con la quale ho sentito di poter raggiungere questo obiettivo. Il titolo viene dalla periferia del sud Milano nella quale vivo: un confine della città che è quasi solo capolinea di treni e autobus. Un luogo di transito per eccellenza, quindi, nel quale moltissimi passano, ma nessuno si ferma. Non diversa è la condizione all’interno della casa rappresentata. La serie indica un percorso nel perimetro del mio appartamento, una vecchia abitazione di ferrovieri, poi di liutai e di persone che col tempo vi sono transitate per periodi sempre più brevi. Un crocevia nel quale si sono stratificate tracce di persone presenti così come di altre che non ho mai conosciuto.


In seguito ho continuato a costruire paesaggi, più immaginati e sentimentali, nel trittico di Landscapes in Milan. Ho scelto ancora una volta Milano perché è la città in cui vivo e perché la ritengo il simbolo più efficace per rappresentare la condizione contemporanea italiana, con la sua crisi che ritengo non tanto economica quanto morale, culturale. Nelle velleità di Expo, e in tutta la sua foga, Milano mi appare sempre più un paesaggio solitario, dove tutto è periferia.
Questo lavoro passa attraverso diversi esperimenti, le costruzioni e le fotografie sono fatte a distanza di tempo le une dalle altre. A intervallarsi e a ispirarmi durante queste fasi è stata una lunga ricerca negli archivi storici dei musei di scienze naturali, dove ho trovato molte fotografie di diorami in costruzione. Mi piaceva l’immagine nel suo complesso, non la vedevo come una fotografia documentativa del lavoro in corso, bensì come la storia di un mondo parallelo. E quel modo di descrivere il paesaggio, dentro delle mura, così come la scelta per i visitatori di scoprire la natura attraverso quel mezzo, erano un linguaggio che mi apparteneva moltissimo.


Ora continuo la mia ricerca, di nuovo non lontana dalla città di Milano e dai suoi riflessi. Convivo ogni giorno col mutare del mio studio che si plasma in base alle mie esigenze, alla grandezza delle costruzioni, alla loro catalogazione. Per me il laboratorio è un luogo di estrema importanza, ho costruito personalmente i mobili e le attrezzature (veri), tutti in funzione dei miei oggetti (falsi). Credo che in questo modo acquistino anch’essi un’identità, e che costituiscano un filtro importante per il mio lavoro.

 

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