Il lavoro dei giovani è spesso costretto a inventarsi forme autonome di diffusione, ma anche di elaborazione teorica. E non è detto che questo sia un male. Nelle difficili condizioni italiane, va però detto, tra crisi infinite e rigidità intergenerazionali, produrre una seria ricerca artistica non è certo per i deboli di cuore o per gli scarsi di motivazione. Tuttavia, con un movimento che mi ricorda l’inevitabile spostarsi di un liquido che trova sempre una via di discesa grazie all’essere sottoposto alle forze gravitazionali, il lavoro di alcuni giovani riesce a crescere e a maturare, grazie alla spinta della lucidità e della determinazione che essi riescono a dedicarvi.
Credo sia necessaria in questa occasione una premessa: il mio punto di osservazione, riguardo al lavoro dei giovani, è al tempo stesso limitato e fortunato. Limitato, perché dato che credo di poter parlare solo di ciò che conosco bene, e non essendo un curatore o uno studioso di mestiere, il mio panorama si riduce di solito alla conoscenza del lavoro dei miei ex studenti (quei purtroppo pochi che negli anni dopo gli studi riescono a proseguire seriamente la loro ricerca) nonché ad altri incontri più occasionali. Entrambi i casi di solito richiedono un tempo di almeno tre anni perché ne siano confermate le eventuali buone impressioni iniziali. Il mio osservatorio è però anche fortunato, perché le molteplici attività didattiche che svolgo mi permettono da un lato di insegnare in alcuni dei luoghi migliori per lo studio della Fotografia in Italia (o meglio, del nord Italia) e dall’altro, grazie a esperienze quali una residenza che curo da anni in Valle d’Aosta, di incontrare anche giovani provenienti da altre validissime realtà.
Succederà insomma qui, ogni tanto, che io voglia porre sotto la vostra lente i risultati di alcuni giovani che conosco a fondo e che ritengo stiano lavorando molto bene – con lo spirito, che regola anche le mie modalità di docente, che quanto più riescano a sorprendermi con la loro intelligenza tanto più sia giusto che io vi dedichi attenzione e rispetto. Lo dico chiaramente: vi sono docenti che tendono a creare piccoli cloni di se stessi e vi sono altri docenti ai quali interessa solo poter aiutare, maieuticamente, i giovani a trovare un loro personale approccio. Spesso questi due aspetti sono compresenti: ma per quanto mi riguarda, direi che senza dubbio mi pongo nella seconda categoria. Per questo, presenterò qui anche lavori che non necessariamente corrispondono a quanto penso o amo sul piano personale riguardo alla fotografia. Certe cose vanno comunque dette, certe cose vanno comunque viste e i giovani talenti hanno il polso del mondo: veloce, fresco, deciso, e, nei casi migliori, brillante.
Teresa Giannico costruisce le sue fotografie, letteralmente, con un laborioso processo manuale che prevede l’utilizzo massivo di immagini – realizzate da lei stessa o in alcuni casi prese dal web – che vengono stampate in modalità bozza con una stampante economica, e poi utilizzate per rivestire dei rustici modellini in cartone grossolano che tutti insieme formano dei diorami, dei teatrini che riproducono in scala la realtà – il più delle volte non inventata ma presa da altre fotografie. Teresa Giannico infine fotografa questi plastici imperfetti e ottiene così quello che viene consegnato alla nostra visione.
Le imperfezioni, le ruvidezze del suo lavoro mi paiono essere uno dei tratti salienti della sua ricerca e credo che un po’ paradossalmente siano una delle ragioni principali della fascinazione che possono produrre le sue opere. Nei risultati finali resta traccia evidente di tutta la complessa sequenza di produzione, e questo toglie completamente quella sorta di patinatura liscia con la quale spesso le fotografie rivestono la realtà. È dunque un processo quasi brutale, quello al quale sono sottoposte le suggestioni di partenza sulle quali lavora, e allo stesso tempo il processo è controllatissimo in ogni suo passaggio: forse nel coniugarsi di queste due istanze sta una delle chiavi di comprensione di questi complessi lavori.
Potrei andare avanti ancora a lungo, tanti sono gli stimoli e i ragionamenti che possono saltar fuori… Ma quando ho detto a Teresa Giannico che mi sarebbe piaciuto mostrare qui il suo lavoro le ho anche chiesto se poteva buttar giù qualche sua riga di riflessione personale. Bè, contrariamente alle mie aspettative (basate sulle abituali enormi difficoltà di scrittura di cui molti giovani oggi soffrono) devo dire che mi è stato dato un testo lungo e interessante – a dimostrazione di una volontà introspettiva sul proprio lavoro che dovrebbe essere esempio per molti. Mi fermo dunque qui e lascio parlare Teresa Giannico, scegliendo alcuni brani del suo testo. Inframmezzano le sue dichiarazioni alcune immagini dei suoi lavori, di un suo recente quaderno di appunti e del suo studio: lavori che potrete approfondire e vedere per esteso nel suo sito.
Ho iniziato a lavorare con i diorami nel periodo in cui studiavo fotografia. Mi ero resa conto di non riuscire ad avvicinarmi appieno a questo mezzo, al gesto della fotografia. Avevo un’altra forma mentis; ho studiato per tanti anni pittura e illustrazione, dunque sono cresciuta con quel tipo di approccio all’immagine. Ma già quando studiavo all’Accademia di Belle Arti di Bari realizzavo pochissimi dipinti, prediligendo il collage e frequentando piuttosto le aule di scenografia, trascorrendo molto tempo nei corridoi pieni di plastici, assistendo da dietro le quinte agli spettacoli teatrali nei quali lavoravano i miei colleghi. Il montare una scena è dunque qualcosa che ho sempre vissuto, così come son sempre fuggita da qualsiasi tecnica specifica: non la pittura, non la scenografia, questa volta non la fotografia. Ma la sfumatura di ognuna sì.
Nel mio lavoro ho scelto di parlare di luoghi, del modo in cui li guardiamo e li viviamo, e per farlo li ricostruisco da zero realizzando dei plastici che poi fotografo. Spesso i miei scenari sono realmente esistenti, ma la scelta di ricostruirli mi aiuta a estrapolare oggetti e ambienti da un contesto specifico, a sintetizzarne le forme ed i colori, a spostare l’attenzione di qualche grado: dall’oggetto in sé alla sua natura. Con la fotografia diretta del reale non raggiungerei la stessa ambiguità. La fotografia riconduce troppo a un luogo preciso e all’esistenza di questo.
La mia pratica si sviluppa prendendo informazioni dalla realtà e scegliendo degli spazi; di questi poi rielaboro ogni singolo elemento. Costruisco tridimensionalmente gli oggetti di riferimento sui quali poi incollo le texture in precedenza fotografate e poi stampate. Non le dipingo, perché la pittura ha insito nel suo fare l’astrazione dell’oggetto. Io cerco una mediazione.
Utilizzo il cartone perché è materiale che non ha velleità di modellismo, lascia anzi delle imperfezioni e quella matericità ha un senso perché non ho la presunzione che i miei oggetti risultino veri. Ma nemmeno palesemente finti. Il risultato al quale ambisco è quello di un ambiente congelato e ambiguo.
Il diorama che costruisco potrebbe essere un’installazione. Ma a quel punto diventerebbe un’altra cosa. Un’installazione vive di una sua tridimensionalità, di una sua superficie ed è collocata in uno spazio. Il fruitore la guarda da lontano, poi si avvicina, ci gira intorno, decide come approcciarsi all’oggetto.
A me invece interessa creare un gap tra l’oggetto esistente e quello immaginato. Lo voglio estrapolare dal tempo e dallo spazio. Deve esistere solo in fotografia, che è quel momento che si è interposto tra l’artefatto e me.
Questi diorami sono per me un espediente per parlare di temi ai quali sono sempre stata legata, temi di impronta sociale; in modo particolare mi affascina il sentimento con cui l’individuo vive nel suo ambiente. Ho iniziato ad affrontare questo argomento occupandomi della mia città, Bari, percorrendo una linea immaginaria dal centro alla periferia della città e ragionando su come il variare dello spazio urbano, delle sue architetture, condizionasse gli atteggiamenti della popolazione.
Ho continuato questa ricerca con modalità meno documentaristiche, preferendo concentrarmi sull’atmosfera più intima riferita al singolo individuo, e aggiungendo ai miei interessi il tema della transitorietà e dell’incertezza, aspetti molto comuni e attuali derivanti dalla crisi economica.
Rogoredo è stata la prima serie con la quale ho sentito di poter raggiungere questo obiettivo. Il titolo viene dalla periferia del sud Milano nella quale vivo: un confine della città che è quasi solo capolinea di treni e autobus. Un luogo di transito per eccellenza, quindi, nel quale moltissimi passano, ma nessuno si ferma. Non diversa è la condizione all’interno della casa rappresentata. La serie indica un percorso nel perimetro del mio appartamento, una vecchia abitazione di ferrovieri, poi di liutai e di persone che col tempo vi sono transitate per periodi sempre più brevi. Un crocevia nel quale si sono stratificate tracce di persone presenti così come di altre che non ho mai conosciuto.
In seguito ho continuato a costruire paesaggi, più immaginati e sentimentali, nel trittico di Landscapes in Milan. Ho scelto ancora una volta Milano perché è la città in cui vivo e perché la ritengo il simbolo più efficace per rappresentare la condizione contemporanea italiana, con la sua crisi che ritengo non tanto economica quanto morale, culturale. Nelle velleità di Expo, e in tutta la sua foga, Milano mi appare sempre più un paesaggio solitario, dove tutto è periferia.
Questo lavoro passa attraverso diversi esperimenti, le costruzioni e le fotografie sono fatte a distanza di tempo le une dalle altre. A intervallarsi e a ispirarmi durante queste fasi è stata una lunga ricerca negli archivi storici dei musei di scienze naturali, dove ho trovato molte fotografie di diorami in costruzione. Mi piaceva l’immagine nel suo complesso, non la vedevo come una fotografia documentativa del lavoro in corso, bensì come la storia di un mondo parallelo. E quel modo di descrivere il paesaggio, dentro delle mura, così come la scelta per i visitatori di scoprire la natura attraverso quel mezzo, erano un linguaggio che mi apparteneva moltissimo.
Ora continuo la mia ricerca, di nuovo non lontana dalla città di Milano e dai suoi riflessi. Convivo ogni giorno col mutare del mio studio che si plasma in base alle mie esigenze, alla grandezza delle costruzioni, alla loro catalogazione. Per me il laboratorio è un luogo di estrema importanza, ho costruito personalmente i mobili e le attrezzature (veri), tutti in funzione dei miei oggetti (falsi). Credo che in questo modo acquistino anch’essi un’identità, e che costituiscano un filtro importante per il mio lavoro.